Premier-Tremonti, scontro totale

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ROMA — Chi si aspettava un Giulio Tremonti sul banco degli imputati, esposto al pubblico ludibrio, messo in croce dai suoi colleghi in maggioranza schiacciante contro di lui all’ufficio politico del Pdl nato e svoltosi come un vero consiglio di guerra, è rimasto un po’ deluso.
Un j’accuse, forse prevedibile, c’è stato: Renato Brunetta ha criticato duramente il collega, e più tardi lo ha fatto Fabrizio Cicchitto, ma Tremonti non c’era già  più. Lui, raccontano, avrebbe replicato con un sorriso ai fendenti del titolare della Funzione pubblica, avrebbe ascoltato tranquillo le obiezioni di chi insisteva sulla necessità  di varare per decreto le misure pretese dall’Europa, e avrebbe lasciato il gruppo prima di uscire per raggiungere il Consiglio dei ministri congedandosi da Berlusconi con un buffetto sulla guancia che somigliava a una carezza.
Misteri di un rapporto ormai da affidare a testi di psicologia, se è vero che nelle ultime ventiquattro ore — tra Berlusconi e Tremonti — è stata guerra vera. E come ancora i due possano fare parte dello stesso governo, e stamattina viaggiare sullo stesso aereo destinazione Cannes dove dovranno cercare di salvare il Paese in un drammatico G20, è uno degli interrogativi senza risposta plausibile della politica italiana.
Sì, perché anche ieri la giornata è stata scandita dai furiosi e gelidi botta e risposta dei due, da sfoghi: «Lui non mi sopporta più e io meno ancora di lui, è peggio di Fini — quello di Berlusconi —. Ma non mi importa, io mi rivolgerò al Paese e chiederò che vengano approvate le misure che servono per salvare l’Italia, indipendentemente da lui». Propositi bellicosi, che ancora una volta si sono infranti contro il muro di un accordo obbligato: si procede a piccoli passi, prima con un maxi emendamento (come voleva Tremonti ma soprattutto il Quirinale), poi più avanti con un decreto e dei disegni di legge. Decisione che ha fatto infuriare la Lega e cadere le braccia a Berlusconi e ai tanti ministri pidiellini convinti che anche stavolta Tremonti ci abbia messo lo zampino: «Ha fatto asse con il Colle per bloccarci!».
Sì perché è ormai da martedì notte che i due combattono una furiosa guerra, esplosa nell’infruttuosa riunione ministeriale che avrebbe dovuto fornire soluzioni tecniche che ieri sera ancora latitavano. A Tremonti, che di fatto bocciava ogni proposta dei colleghi e dello stesso premier, a un certo punto Paolo Romani si è rivolto a brutto muso: «E basta, dillo chiaro che vuoi mandare a casa il presidente!». «Io non sto dicendo questo», «Sì invece che lo stai dicendo». «Io sto dicendo — questo il colpo sferrato da Tremonti — che lunedì ci sarà  un disastro sui mercati se tu, Silvio, resti al tuo posto e non fai un passo indietro. Perché il problema per l’Europa e i mercati, giusto o sbagliato che sia, sei proprio tu». Immediata la replica di Berlusconi: «No, il problema sei tu invece, sono tre anni che vai a sparlare in giro per il mondo del tuo Paese e del tuo presidente del Consiglio».
Parole che avrebbero provocato l’immediata rottura di un rapporto politico, in condizioni normali, anche perché giurano che perfino Roberto Calderoli (che anche ieri si è scontrato con Tremonti) avrebbe preso le distanze dall’«amico Giulio» sul punto. Parole che però non hanno impedito che ieri la scena si ripetesse su un copione simile almeno un’altra volta. C’è chi dice — e forse è leggenda — che i due siano arrivati a un certo punto quasi alle mani, chi descrive un confronto in questi toni: «Se avessi potuto fare il ministro come avrei voluto, oggi non saremmo a questo punto», la protesta di Tremonti a chi — compreso Berlusconi — gli rinfacciava di non aver saputo né prevedere né evitare la crisi, dunque non si capisce come «faccia Giulio — dice uno tra i suoi avversari — a pensare di poter fare lui il premier in caso di caduta di Berlusconi». E Berlusconi, di rimando: «Se avessi potuto io fare il premier come avrei voluto, tu non saresti il mio ministro!».
Ma al di là  delle parole realmente dette o non dette, di vero c’è che il contrasto tra Berlusconi e Tremonti non è di quelli che si possono sanare. A Tremonti ieri veniva imputato il no di Napolitano al varo di un decreto legge, che sarebbe stato lo strumento più gradito a Berlusconi ma che invece vedeva contrario il ministro, in Consiglio rimasto tranquillo a leggere i giornali mentre i colleghi si chiedevano angosciati «perché Napolitano non vuole un decreto?!». La sua opinione l’aveva espressa in precedenza Tremonti, anche al Quirinale: «Non si possono mettere misure che per essere approvate necessitano 60 giorni: in due mesi si fa in tempo a smontarlo un decreto, e questo ammazzerebbe ogni credibilità  del Paese». Con il maxi emendamento al decreto di Stabilità  si capirà  in tempi brevi se esistono i numeri in Parlamento per approvare le misure previste. Sempre che ci si arrivi a un voto a metà  novembre, e che le grandi manovre che stanno terremotando il Pdl non costringano il premier a prendere atto subito di una crisi ormai nei fatti.


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