“Nell’agenda sparita il movente della strage”

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Chi ha rubato l’agenda rossa di Paolo Borsellino voleva cancellare cinque giorni di appunti. E far sparire così le prime tracce della trattativa fra Stato e mafia. L’ultima pista sulla scomparsa di quel diario che il procuratore di Palermo teneva sempre con sé porta ai cinque giorni – dal 23 al 28 giugno 1992 – nel corso dei quali Paolo Borsellino era venuto a conoscenza del patto. E aveva cominciato a scrivere su quei fogli tutto ciò che sapeva – accordi e baratti – sugli incontri fra gli ufficiali del reparto speciale dei carabinieri e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Neanche un mese prima di saltare in aria, il procuratore aveva scoperto cosa stava accadendo. E aveva riempito la sua agenda. «E questa è ormai l’ipotesi più consistente che abbiamo in relazione a quella sparizione», commentano i magistrati siciliani che hanno riaperto le indagini sulle stragi di quasi vent’anni fa.
Paolo Borsellino sapeva. E una conferma decisiva ai suoi tormenti adesso arriva anche da sua moglie Agnese, che è stata ascoltata sugli ultimi giorni di vita del marito. Riferisce la signora: «Paolo mi ha detto testualmente: “C’è un colloquio fra la mafia e parti infedeli dello Stato”».
Sapeva. È questo, dunque, il movente del furto di quell’agenda pochi minuti dopo l’inferno di via Mariano D’Amelio. Le date individuate dai pubblici ministeri – 23 giugno e 28 giugno – sono quelle più significative per ricostruire nei particolari l’origine del negoziato che è, probabilmente, anche la causa dell’uccisione del procuratore.
Fra la fine del maggio 1992 e l’inizio di giugno i carabinieri dei reparti speciali – il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno – contattano Vito Ciancimino e cominciano a frequentare la sua casa romana, dietro Piazza di Spagna. È il 23 giugno quando, a un mese esatto da Capaci, De Donno (ma lui smentisce la circostanza) informa «ufficiosamente» il direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia Liliana Ferraro «che Ciancimino vuole collaborare». La Ferraro, che ha preso al ministero il posto di Falcone, avverte il ministro Claudio Martelli. Quest’ultimo la consiglia di raccontare tutto a Borsellino. Due giorni dopo, il 25 giugno, il magistrato chiede un incontro con i due ufficiali del Ros. L’appuntamento, per volere del magistrato «è fuori dalla Procura», lontano da occhi indiscreti. Secondo il colonnello e il capitano i tre parlano di un rapporto su «mafia e appalti», secondo i magistrati di Palermo è in quell’occasione che Borsellino viene a sapere nel dettaglio tutte le manovre sull’avvicinamento di don Vito.
E tre giorni dopo, il 28 giugno, Paolo Borsellino, sua moglie Agnese e Liliana Ferraro s’incrociano nella sala Vip dell’aeroporto di Fiumicino. E parlano ancora della trattativa. Ricorda la Ferraro: «Sua moglie si inserì nel nostro discorso chiedendomi più volte di convincere il marito a non andare avanti, perché non voleva che i suoi figli rimanessero orfani». Borsellino andò avanti.
La procura di Caltanissetta ha ricominciato le indagini sulla scomparsa dell’agenda rossa proprio da quei cinque giorni. E ha ordinato l’acquisizione di nuovi filmati – praticamente tutti quelli girati nei minuti successivi all’esplosione da Rai, reti Mediaset e ed emittenti locali – per individuare volti di uomini con in mano la borsa di pelle di Borsellino dove era custodita l’agenda rossa. L’inchiesta riprende praticamente daccapo dopo il proscioglimento «per non avere commesso il fatto» del colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, in un primo momento sospettato per il furto della borsa del magistrato. C’era un’immagine, sequestrata al fotografo palermitano Franco Lannino, che ritrae il colonnello con in mano quella borsa. Così tutto riparte da altre immagini e da altri personaggi.
Dopo la richiesta di revisione per gli imputati (innocenti) accusati di avere ucciso il procuratore Paolo Borsellino, sono sette i filoni d’inchiesta ancora aperti sulle stragi siciliane del 1992. Uno è quello dell’agenda rossa. Un altro riguarda gli esecutori materiali della strage di via D’Amelio dove, al momento, ci sono 7 indagati. Un terzo filone è concentrato sui legami fra alcuni mafiosi coinvolti nel massacro ed esponenti dei servizi segreti. La quarta indagine punta a scoprire chi, nell’aprile del 1992, fornì l’esplosivo per uccidere un mese dopo Falcone. La quinta inchiesta è sulla manomissione del computer del giudice: dopo Capaci dal suo pc sparirono alcuni file. La sesta è concentrata su esami del Dna per individuare gli attentatori dell’Addaura, 58 candelotti piazzati il 21 giugno del 1989 sotto la villa di Falcone. E l’ultima, la settima, è quella sulla trattativa fra Stato e mafia.


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