Sembrano tornati i tempi di Mubarak

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Scontri furiosi intorno alla piazza Tahrir presidiata dai manifestanti. Ma la protesta si estende dal Cairo ad Alessandria e altre città . I militari confermano le elezioni per il 28 e i Fratelli musulmani concordano Dopo un’iniziale diffidenza la popolazione appoggia e sostiene la nuova protesta di fronte alla brutalità  della repressione IL CAIRO
«Erhal! Erhal!», «Vattene! Vattene!». Sono le 7 e mezza di sera e il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi ha appena concluso il suo discorso alla nazione trasmesso dalla televisione di stato. L’anziano ufficiale, vestito con la divisa di ordinanza ha affermato che «l’esercito non ha ucciso nessun egiziano» e non ha alcuna ambizione di rimanere al potere, sostenendo poi che «forze oscure» sono dietro alle proteste di questi giorni. Appena Tantawi pronuncia le ultime parole ascoltate attraverso radioline e amplificatori, la piazza risponde con un boato di disapprovazione che non lascia scampo. Non bastano le dimissioni del governo fantoccio presieduto da Essam Sharaf. Non bastano le promesse di dialogo con partiti e movimenti. Non basta la promessa di elezioni presidenziali a giugno 2012. E’ troppo poco, troppo tardi. «El-shaab iurid iskat el-mushir», il popolo vuole la caduta del feldmaresciallo.
Il quarto giorno di mobilitazione contro una giunta militare, che è la continuazione sotto mentite spoglie del regime di Mubarak era il momento decisivo per vedere se il popolo egiziano avrebbe appoggiato la gioventù rivoluzionaria di Tahrir. Nei primi giorni di mobilitazione si avvertiva infatti una certa diffidenza tra la gente comune rispetto ad una protesta diventata presto guerriglia urbana, in un paese in cui con l’economia e il turismo sono a terra, e sono in molti a bramare un po’ di stabilità . Ma le immagini della crudeltà  delle forze di sicurezza contro i manifestanti, diffuse su facebook e su al-Jazeera, e la testardaggine della giunta militare nel volere reprimere le proteste ad ogni costo sembrano aver convinto molti indecisi a saltare sulla barca di questa seconda rivoluzione. Così ieri in centinaia di migliaia hanno aderito alla chiamata della «marcia del milione» lanciata lunedì da 35 movimenti e partiti.
A partire da metà  pomeriggio piazza Tahrir si è riempita all’inverosimile. Si faceva fatica a entrare e fatica a uscire. Marce di sostegno sono arrivate da Shubra, Dokki, Giza e decine di altri quartieri della capitale egiziana. Studentesse delle scuole superiori intonavano cori ritmati contro Tantawi chiamato «baltageya» ovvero criminale. Un signore con le mani incatenate e l’immagine del figlio finito nelle carceri militari applaudiva un corteo appena entrato in piazza, «bravi che siete venuti qui invece che stare sulla vostra poltrona». Nel frattempo i venditori ambulanti facevano affari d’oro vendendo maschere anti-gas e occhialini protettivi. Sembrava di rivedere le immagini del 28 gennaio il giorno decisivo della rivoluzione contro Mubarak. E come il 28 gennaio sulla «sannaya» l’enorme rotonda al centro di piazza Tahrir sono cominciate a spuntare le tende, con al centro il tendone dell’ospedale da campo.
Forze e leader politici presi di sorpresa dall’impeto dei manifestanti hanno provato a capitalizzare sulla protesta, ma per lo più sono stati respinti a malomodo. Tra loro Beltagy, esponente dei Fratelli musulmani, che continuano a chiedere che le elezioni parlamentari previste per il 28 novembre si tengano regolarmente. «Arrivi troppo tardi», gli hanno gridato i manifestanti. A essere letteralmente accolti a braccia aperte sono stati invece i due generali comparsi a sorpresa in piazza nel tardo pomeriggio per comunicare la propria solidarietà  con i manifestanti. Non è la prima volta che ufficiali rompono i ranghi con il regime. L’8 aprile una dozzina di sottufficiali si unì ad un sit-in a piazza Tahrir: in poco tempo furono arrestati e fatti sparire chissà  dove. Mai si era visto l’appoggio di ufficiali di così alto livello, a dimostrazione che il regime militare sta veramente cominciando a perdere i pezzi.
Mentre in serata in piazza l’entusiasmo raggiungeva livelli parossistici nelle strade vicino a Tahrir continuavano ad infuriare gli scontri con la polizia e continuava ad aumentare il numero di morti e feriti colpiti dalle pallottole e soffocati dai gas lacrimogeni tra cui il famigerato gas CR, inventato dai britannici e proibito dagli anni ’60, perché può provocare la morte per edema polmonare. «Manca sangue all’ospedale di Qasr el-Aini» – annunciava qualcuno su Twitter, mentre all’hashtag #TahrirNeeds si facevano le liste dei beni di prima necessità  da portare in piazza: siringhe da cinque centimetri, anestetizzanti locali, acqua, coperte.
Ma ieri il vero epicentro della violenza è stata Alessandria dove si sono intensificati gli scontri attorno al direttorato della polizia, che gli agenti difendono a tutti i costi sostenendo che ospiti un deposito di armi.
Di fronte alla vitalità  della mobilitazione che promette di guadagnare forza nei prossimi giorni e di esplodere con forza venerdì prossimo, la giunta militare continua testardamente a sostenere che le elezioni cominceranno regolarmente lunedì. Nel frattempo cerca di fare fronte alla crisi offrendo piccole concessioni che considera di gradimento dei partiti. Così ieri i militari hanno infine accettato le dimissioni rassegnate lunedì dall’esecutivo di Essam Sharaf e promesso un governo di salvezza nazionale per cui è stato ventilato il nome di El Baradei. Nessuna risposta invece alle domande che vengono dalla piazza. Contro i manifestanti il regime usa le stesse tattiche già  viste ai tempi della rivoluzione contro Mubarak ed in particolare l’accusa di essere al soldo di governi stranieri. E quando mancano le prove del complotto, le creano a tavolino come fatto con l’arresto di tre studenti universitari americani a piazza Tahrir, contro cui pende la risibile accusa di aver tirato bottiglie molotov contro le forze di sicurezza.
Mentre la notte scende su Cairo, Alessandria e decine di altre città  in cui continua la battaglia tra manifestanti e polizia la soluzione alla crisi politica che attraversa l’Egitto sembra lontana. «Non vedo una via di uscita», sospira Mustafa un manifestante trentatrenne con un grande cerotto in testa. «La giunta militare non abbandonerà  il potere, perché se lo fanno finiscono come Mubarak, o peggio come Gheddafi. Dal canto nostro, noi non abbandoneremo la piazza». Nove mesi fa i militari offrirono una via d’uscita alla crisi proponendosi come garanti della transizione democratica: una promessa tradita che ha scatenato questa seconda ondata rivoluzionaria. Questa volta il popolo egiziano potrà  contare solo su se stesso.


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