Torce umane in nome del Tibet il Dalai Lama: “Genocidio culturale”

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PECHINO – Nell’indifferenza del mondo, il Tibet consuma la sua ultima tragedia. Monaci e suore dei monasteri buddisti, assediati dall’esercito cinese, non desistono dall’appiccarsi il fuoco per opporsi alla repressione di Pechino, che da marzo ha ripreso a svuotare i conventi fedeli al Dalai Lama. Dodici in poche settimane le vittime di sacrifici: un dramma senza precedenti nella storia della resistenza tibetana, sempre ispirata alla non violenza. «E’ in corso un genocidio culturale – ha denunciato ieri a Tokyo il Dalai Lama – ed è la Cina a essere responsabile delle immolazioni. Da quindici anni in Tibet la situazione è disperata e ai religiosi, per non cedere, ormai non resta che rinunciare alla vita».
Sette monaci e una suora sono morti dopo essersi cosparsi di cherosene. Quattro i religiosi salvati in extremis, se pure devastati dalle ustioni. Venerdì gli ultimi due gesti disperati: una suora di 35 anni si è suicidata davanti al monastero di Aba, nel Sichuan, mentre a New Delhi un esule di 25 anni si è dato alle fiamme davanti all’ambasciata cinese in India. Otto morti solo in ottobre: tra i tibetani cresce la disperazione per l’oppressione cinese e il senso di abbandono da parte dell’Occidente, politicamente paralizzato dalla propria crisi economica e dalla crescita del potere globale della Cina. Tutti i ribelli si sono trasformati in torce umane invocando libertà  religiosa, un Tibet sottratto al dominio di Pechino, la fine di massacri e deportazioni, oltre che il ritorno a Lhasa del Dalai Lama dopo oltre mezzo secolo.
Per la causa tibetana si apre un capitolo decisivo. Le autorità  cinesi accusano “la cricca del Dalai Lama” di alimentare i suicidi per destabilizzare l’area, creando le condizioni perché la richiesta di indipendenza, o di autonomia, «degeneri in terrorismo». «Non condannare ma anzi istigare le auto-immolazioni per fini secessionistici – ha attaccato la portavoce del ministero degli esteri, Hong Lei – è una sfida alla moralità  umana». Fino a ieri il Dalai Lama aveva taciuto, come il primo ministro del governo in esilio Lobsang Sangay, raccolto in preghiera a Dharamsala. Migliaia di monaci e di tibetani all’estero in queste ore rendono invece omaggio «al coraggio e al sacrificio delle vittime che scelgono la morte perché non hanno altra scelta per ricordare al mondo le loro sofferenze».
Organizzazioni umanitarie e comunità  internazionale sono sotto shock, mentre in Cina la censura blocca ogni notizia. Da marzo, dopo il primo caso di suicidio a Kirti, le regioni dell’antico Tibet sono circondate e isolate dall’esercito cinese. I monasteri ribelli sono irraggiungibili, vengono occupati dai militari, o assediati per costringere i monaci ad arrendersi per fame. Centinaia i religiosi portati via per essere “rieducati”. La tensione, dopo la rivolta del 2008 repressa nel sangue, è esplosa alla vigilia di storici passaggi politici. Il Dalai Lama, a 76 anni, si è ritirato dagli incarichi di governo. Ha mantenuto l’autorità  spirituale e annunciato che il suo successore potrebbe nascere anche fuori dal Tibet. Pechino ha invece coinvolto nei vertici del partito il Panchem Lama di nomina governativa e ha fatto capire che, alla morte di Tenzin Gyatso, si arrogherà  la scelta del prossimo leader dei buddisti.
Per il Tibet, colonizzato dai cinesi di etnia han e svuotato dei nativi himalayani, convivere con due Dalai Lama equivarrebbe ad un colpo mortale. Secondo i tibetani in esilio, lo sconforto dei monaci suicidi potrebbe sfociare presto in una incontrollabile strage di massa, con centinaia di sacrifici. Pechino lancia invece l’allarme-terrorismo e teme che dalle auto-immolazioni si passi agli attentati kamikaze contro obiettivi cinesi, «trasformando il Tibet nel prossimo Afghanistan». Leader pacifisti e buddisti supplicano così il premio Nobel per la pace 1989 di chiedere pubblicamente la fine dei roghi umani: per scuotere l’Occidente, togliere alla Cina la possibilità  di dipingere i tibetani come fanatici religiosi, salvare decine di vite e il valore della non violenza quale arma per conquistare la libertà . SEGUE A PAGINA 6


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