Tutti contro il “nido di spie” come in un remake del ‘79

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COME i vecchi soldati che non muoiono, così i vecchi nemici ritornano, agitando gli spettri di un passato mai risolto: un’altra ambasciata «satanica» brucia a Teheran, trent’anni dopo quella americana.
«Spontanea» come le memorabili marce anti imperialiste sceneggiate dal Cremlino sovietico negli anni della Guerra Fredda, con il necessario tocco coreografico e televisivo degli incendi e delle grida contro «il nido di spie», la folla degli «indignati» iraniani di regime si è scagliata contro l’ambasciata britannica a Teheran.
È un «remake» in chiave più modesta e più cauta della presa della legazione americana nel novembre 1979 e di quella crisi degli ostaggi lunga 444 giorni che segnò la fine della presidenza Carter e spianò la strada alla vittoria di Ronald Reagan. Dell’inflessibile presidente americano che giurò di non trattare mai con i terroristi, mentre sottobanco, e illegalmente, regalava torte al cioccolato e missili terra aria per ingraziarsi il regime di Khomeini. Anche se questa volta il bersaglio è la rappresentanza del governo di Sua Maestà  britannica, colpevole agli occhi del regime e dei suoi cosiddetti studenti di avere stretto i bulloni dell’embargo anti-iraniano per rallentare il programma nucleare, il messaggio degli indignati di regime in servizio permamente è chiaramente diretto alla nuora inglese perché la suocera americana intenda. È una sceneggiata preventiva, per usare il vocabolario già  caro agli ideologhi neoconservatori che lo utilizzarono per l’invasione americana dell’Iraq, e per ora incruenta, organizzata per dissuadere americani e inglesi, ma soprattutto turchi e israeliani dalla tentazione di una guerra aerea contro le centrali e le installazioni nucleari iraniane. Tentazione che nelle ultime settimane era sembrata farsi sempre più irresistibile, soprattutto in Israele.
Il parallelo e le affinità  con il grande e angoscioso circo politico terroristico del 1979, che volle mettere a nudo con successo la debolezza e le incertezze del governo americano e spinse il mite Carter a una sciagurata e tardiva missione di salvataggio franata nel deserto, sono deliberate, anche se tenute a fuoco basso dagli organizzatori di Teheran. Nel giorni del novembre del 1979, trascinati fino alla liberazione dei 52 diplomatici e funzionari americani il 20 gennaio del 1981, dunque il giorno esatto nel quale Ronald Reagan entrò alla Casa Bianca, il nuovo regime rivoluzionario guidato da Khomeini contro lo Scià  Reza Palhavi cercò il proprio battesimo di fuoco. Lo volle come dimostrazione della propria capacità  di sfidare e stuzzicare l’aquila «satanica» per dimostrarne l’impotenza, con la miccia di uno sconsiderato brindisi di saluto e di stima che proprio Carter volle dedicare all’imperatore deposto e generalmente esecrato in patria.
Fu una dimostrazione che per oltre un anno, nel pieno di una crisi economica e di fiducia che aveva attanagliato gli Usa e di una campagna elettorale tutta puntata sull’inefficacia del presidente in carica, Jimmy Carter, riuscì oltre ogni speranza di chi l’aveva organizzata. Carter, che proprio in quello stesso periodo aveva già  dovuto incassare l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel Natale del 1979 senza trovare altra risposta che il boicottaggio delle Olimpiadi del 1980 a Mosca, si tormentò per un anno tra i suggerimenti dei falchi, che volevano un’azione di forza per liberare gli ostaggi e punire l’impudenza di Khomeini e gli inviti alla cautela delle colombe, che temevano l’esplosione anti-americana di tutta la «mezzaluna islamica», dall’Atlantico all’Asia Centrale, di fronte a un intervento militare. Per scelta e per temperamento, Carter, predicatore di catechismo e devoto cristiano battista, aveva rifiutato, dopo l’eredità  del Vietnam, la soluzione di forza e in questo dilemma vacillò e tentennò per mesi. Cedette soltanto alla vigilia delle elezioni, lanciando l’operazione “Artiglio d’Aquila”, miseramente franata tra sfortuna e disorganizzazione, nel deserto iraniano.
Ma come nel 1979, così in questo 2011 il movente del “remake” con gli assalti alle ambasciate – non nuovo, con passati assalti anche a quella danese – va oltre il desidero di irritare ed esasperare le potenze euro-americane. La presa della ambasciata americana da parte dei pasdaran khomeinisti avvenne meno di un anno dopo la rivoluzione che aveva portato al potere il grande ayatollah e la sua corte di chierici fondamentalisti. Dunque fu uno stratagemma evidente per indirizzare il fervore dei giovani rivoluzionari verso il «Grande Satana» infedele d’oltremare.
Oggi, mentre la preoccupazione internazionale cresce, con l’eccezione della Russia di Putin, per il possibile e forse imminente arsenale nucleare dell’Iran, gli eredi della teocrazia khomeinista hanno visto con ansia il sommovimento popolare nelle nazioni arabe e mussulmane del Nord Africa e della penisola Arabica. Nella massima potenza islamica, di confessione sciita, anche se non araba, dove la dittatura religiosa fatica sempre più a contenere la crescita e le inquietudini della società  civile, riesumare i vecchi spettri e sceneggiare un nuovo assalto al «nido delle spie» angloamericane bruciando un po’ di bandiere e di automobili è un utile diversivo. Per il momento.


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