Uomini e zoo. La fabbrica del razzismo

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Si è cominciato molto presto a “inventare” il selvaggio, e a esibirlo, farne spettacolo. A farne oggetto di curiosità  morbosa, di sfogo alle fantasie più inconfessabili, specie quelle sessuali. Ad ingigantire il “diverso”, lo “strano”, il “mostruoso”. A farne il ricettacolo delle convenienze propagandistiche del momento, delle paure e, insieme, dei desideri proibiti. Da quando gli antichi egiziani esibivano i “nani neri” provenienti dal Basso Nilo, il Medioevo esibì i propri “mostri”, “esseri difformi” nelle fiere, Juan Bosch i suoi incubi impareggiabili nei dipinti, Cristoforo Colombo e poi conquistadores e pirati riempirono le corti europee con gli strani campioni di umanità  strappati al Nuovo mondo, filosofi e scrittori di viaggi suscitavano brividi nei loro lettori con i racconti sui “cannibali”. Ma solo nell’Ottocento e nel primo Novecento l’esibizione del selvaggio e del diverso avrebbero assunto dimensioni industriali.
Ne dà  conto, in modo enciclopedico, l’esposizione parigina L’invention du sauvage, accompagnata da un catalogo imponente, ricchissimo di documentazione iconografica, cui hanno collaborato oltre settanta specialisti. «Zoo umani», il sottotitolo, è un termine coniato da Desmond Morris negli anni Sessanta per descrivere la condizione dell’uomo moderno che, costretto a vivere nella «giungla di cemento» della città  come un animale in gabbia, svilupperebbe comportamenti animaleschi legati a questa sua condizione di cattività . Nel contesto dell’esposizione parigina il riferimento è invece agli oltre 35mila esseri umani “esotici” o “anomali” che dal 1800 a metà  1900 furono esibiti come animali allo zoo, talvolta letteralmente in gabbia.
Erano spettacoli da circo o da baraccone, sapientemente messi in scena e coreografati da impresari specializzati nello stupire ed eccitare il pubblico, sollecitarne il voyeurismo. Pioniere in America era stato P. T. Barnum, quello del famigerato Circo. Pioniere in Europa fu invece il pescivendolo amburghese Carl Hagenbeck, che dopo aver rifornito gli zoo di animali si mise ad esibire indigeni samoiedi o samoani. Il freak show, l’esibizione del mostro, dello scherzo di natura, e la performance con brivido dei “selvaggi autentici” erano le due facce della stessa medaglia. Si misero in scena gemelli siamesi, donne e bambini pelosi, uomini-leone e uomini-elefante. Tra 1800 e 1815 grandi folle accorsero a Londra e a Parigi ad ammirare, sbirciare, misurare, persino toccare eccitati le forme ipertrofiche della povera “Venere ottentotta”. Così come la gente correva a vedere gli Indiani di Buffalo Bill (che almeno erano pagati). L’imbroglio degli imbonitori faceva parte del gioco. Andarono in scena anche uno “spaventoso guerriero del Dahomey”, che invece veniva dal North Carolina, dei “cacciatori di teste del Borneo”, cresciuti però in una fattoria dell’Ohio, persino bianchi trasformati in cannibali del continente nero con una mano di vernice.
La messa in mostra del selvaggio si ammantò presto di razzismo scientifico, prima ancora di dar man forte al razzismo popolare. Poi si trasformò in esibizione della prodezza civilizzatrice coloniale. Tutte le grandi Esposizioni internazionali avevano il loro villaggio indigeno fasullo, con centinaia di “selvaggi” in carne e ossa in mostra. L’Esposizione universale di Parigi del 1889 fu visitata da 32 milioni di persone, quella del 1900 da oltre cinquanta milioni. A Chicago accorsero nel 1893 in 27 milioni a vedere eschimesi impellicciati, “amazzoni” a seno nudo e il “villaggio algerino” con tanto di danza del ventre. A Glasgow nel 1888 erano stati quasi in 6 milioni ad accorrere per guardare bayadere e fakiri. Sono già  cifre da audience tv, prima ancora che si potessero immaginare la televisione, le veline, le abbondanze anatomiche in prime time e il Grande fratello o L’isola dei famosi. Ma il selvaggio di massa che si crede civilizzato cominciava già  a rispecchiarsi in quello esotico e immaginato.
Anche l’Italia fece la sua parte. Si era cominciato a Torino a esibire, nel quadro dell’Esposizione generale del 1884, i cosiddetti “assabesi” dell’Eritrea, dancali provenienti dal retroterra della Baia di Assab. Seguirono ricostruzioni con selvaggi “autentici” a Palermo nel 1892 e di una “Cairo”, ovviamente fasulla, a Milano nel 1906. Furono portati per divertimento “selvaggi” persino al Quirinale, ma qualcuno di loro morì prima di allietare la famiglia reale. Seguirono i tempi di Faccetta nera.
Poi questo tipo di esposizione “etnica” cadde in disuso. Fino all’atroce replica del 23 giugno 1944 nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezin), a nord di Praga, quando rappresentanti della Croce rossa svizzera e danese furono invitati a visitare il “villaggio ebraico” gestito dalle SS, con tanto di aiuole fiorite, squadre di football, cori di bambini e orchestrine di musica classica e jazz. Per evitare una cattiva impressione di sovraffollamento, giusto alla vigilia dello spettacolo 17mila “ospiti” erano stati trasferiti ad Auschwitz.


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