Violenza in Egitto, l’esercito si scusa

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IL CAIRO – È l’incertezza a dominare in Egitto. A tre giorni dalle prime elezioni libere dalla caduta della monarchia più di cinquant’anni fa, il Paese è scosso fin nelle sue fondamenta. La protesta contro la Giunta militare è andata avanti per il quinto giorno non solo al Cairo ma in tutte le principali città  egiziane, con un tragico bilancio che ha raggiunto i 38 morti e oltre 4000 feriti. La Giunta militare annuncia che il voto si terrà  regolarmente lunedì, ma i partiti e le coalizioni che partecipano al voto esprimono forti perplessità  sulla possibilità  di tenere elezioni in queste condizioni e sono favorevoli a un rinvio di due settimane.
Gli unici sostenitori del voto subito sono i Fratelli Musulmani che con il loro Partito per la Libertà  e la Giustizia si aspettano una grande vittoria. Ma il popolo di Piazza Tahrir non ci sta. Ieri notte era ancora affollata da migliaia e migliaia di persone che chiedevano ai militari di passare la mano a un governo di unità  nazionale che gestisca il lungo percorso elettorale per rinnovare l’Assemblea Legislativa e la Shura (la Camera alta consultiva), in una babele di votazioni che durerà  quattro mesi.
Per oggi è stata convocata un’altra grande manifestazione, un’altra “one million march”, forse la prova di forza decisiva per spingere i militari a farsi da parte e rinviare le elezioni. Fra le personalità  favorevoli al rinvio il premio Nobel Mohammed El Baradei, indicato da molti come il premier di un esecutivo di salvezza nazionale che può gestire questo difficile momento. Anche se ieri sera, in un disperato tentativo, la Giunta militare ha nominato l’ex premier Kamal Ganzuri per provare a formare un nuovo governo.
Ieri mattina la Giunta ha chiesto scusa pubblicamente per le vittime degli scontri di questi giorni. «Tenere le elezioni adesso è il modo migliore per aiutare il Paese in questi tempi difficili», ha detto in una conferenza stampa il capo di Stato maggiore, il generale Mokhtar al-Mullah. Al suo fianco il presidente della Commissione elettorale Abdel Moez Ibrahim assicurava: «Siamo pronti a far svolgere le elezioni a prescindere dalle circostanze». Affermazione difficile da sostenere, non un solo seggio è stato allestito finora né sono stati convocati gli scrutatori. Ieri sera in Piazza Tahrir giravano migliaia di volantini firmati da 65 fra movimenti, partiti politici, e personalità  egiziane che recavano il calce queste parole: «Non vogliamo le scuse dei militari, tenetevi le vostre condoglianze e tornate nelle caserme».
Ieri i militari hanno anche negato che siano stati usati proiettili veri per reprimere le manifestazioni di piazza, nonostante le centinaia di bossoli raccolti nelle strade attorno a Piazza Tahrir e le centinaia di feriti da arma da fuoco curati dai medici volontari. La polizia anti-sommossa ha usato la mano pesante, violenze pestaggi e abusi non si sono mai fermati. Fra i “bersagli” preferiti i giornalisti. Due reporter del quotidiano Al Ayoum sono stati feriti da pistolettate, altri di Al Ahram malmenati e poi arrestati. Della violenza degli uomini in divisa ha fatto le spese anche Mona El-Tahawy, blogger e giornalista con nazionalità  egiziana e americana, arrestata mercoledì notte vicino piazza Tahrir. Oltre al pestaggio, la giornalista – che è stata rilasciata ieri pomeriggio – ha denunciato anche pesanti aggressioni sessuali nel posto di polizia dove era stata portata.
È notte quando su via Mohamed Mahmoud, la strada verso la cittadella del potere egiziano, arrivano i camion dell’esercito. Scaricano rotoli di filo spinato e blocchi di cemento mentre i blindati si parcheggiano nelle vie adiacenti. Non è un buon segno.


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