ALLARME RUSSO

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Eppure in decine di migliaia hanno protestato ieri contro le frodi elettorali di Putin. Da Kaliningrad a Vladivostok, passando per San Pietroburgo e soprattutto Mosca, i manifestanti hanno sfidato raccomandazioni mediche e moniti governativi. Le cifre come al solito ballano, ma almeno nella capitale si è trattato della più grande manifestazione dell’ultimo ventennio. Non è ancora “primavera russa”. Ma la legittimità  del sistema putiniano è per la prima volta apertamente contestata da una quota influente del pubblico. Soprattutto nelle componenti giovani e urbane, decisive nei grandi momenti della storia russa. Comunisti, nazionalisti e finora sparuti liberali mettono nel mirino Russia Unita, il partito di Putin e Medvedev. Pretendono nuove elezioni, stavolta vere. Alcuni esperti calcolano che la manipolazione abbia regalato ai putiniani il 15-20% in più dei voti, altri si fermano a un più realistico 10%. Rispetto al 49,3% ufficiale, Russia Unita avrebbe quindi in realtà  mantenuto il rango di primo partito, ma non disporrebbe più della maggioranza alla Duma. Una truffa troppo smaccata anche per gli standard russi. Almeno di questi tempi, quando la crisi economica mondiale è assurta a crisi globale di credibilità  della politica. A partire dai governi e dai partiti che li sostengono. A tre mesi dalle elezioni presidenziali che nelle previsioni generali riporteranno Putin al Cremlino – e forse Medvedev a vita privata – l’allarme è scattato nei palazzi del potere russo. Lo stesso premier aveva personalmente accusato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton di eccitare le proteste e di supportare gruppi di opposizione: «Non vogliamo che la situazione in Russia si sviluppi come a suo tempo in Kirghizistan o in Ucraina». Tradotto: «Cari americani, fatevi gli affari vostri. In ogni caso, stroncheremo sul nascere qualsiasi ‘rivoluzione colorata’». In attesa della prossima ondata di protesta, in calendario per il 24 dicembre, azzardiamo due provvisorie deduzioni. La prima riguarda la stabilità  del sistema politico russo, la seconda le conseguenze geopolitiche della contestazione. Quanto alla prima: Putin resta certo il leader più amato dal suo popolo. Anche perché gli aspiranti alla successione sono impresentabili o appaiono finora di taglia troppo ridotta. Ma il carisma dello zar si sta logorando. La decisione di ricandidarsi alla presidenza ha turbato non solo i pochi liberali russi, ma una fetta di opinione pubblica moderata, governativa per istinto e vocazione. Il pesante “ritocco” dei risultati elettorali, in omaggio al principio per cui importante non è come si vota, ma come si contano i voti, ha fatto scattare la scintilla. Evidentemente Putin aveva sottovalutato la sensibilità  di molti suoi concittadini. Compresi alcuni di coloro che lo rivoteranno presidente, in assenza di alternative credibili. Finora il sistema partitico russo era modellato sulle “democrazie popolari” dell’Est ai tempi della guerra fredda. Un partito centrale – non più i comunisti, ma Russia Unita – e vari partiti satelliti, deputati a fingersi di opposizione. A cominciare dai veterocomunisti di Zyuganov e dai nazionalisti di Zhirinovsky. Ai margini, a recitare più o meno gratuitamente il ruolo degli irriducibili, sparuti oppositori filo-occidentali. I quali erano ieri in piazza con comunisti e nazionalisti. Insieme a loro, molti giovani finora estranei all’impegno politico. Tutti a inveire contro Russia Unita, “partito di ladri e imbroglioni”. Se e quando tornerà  al Cremlino, Putin dovrà  dunque affrontare la crisi della costellazione partitica finora vigente. Al caso, con metodi spicci. Quanto ai riflessi geopolitici, conviene misurarli nel triangolo Washington-Pechino-Mosca. Le tre principali potenze mondiali si studiano in cagnesco. Gli americani, inclini a vedere nella Cina un pericoloso competitore se non un nemico da battere come a suo tempo l’Urss, farebbero volentieri a meno di doversi confrontare anche con Putin tornato al Cremlino, di sicuro non un amico degli Usa. Altro che “reset”. Di qui il sostegno non solo retorico agli oppositori di uno zar che ha già  dato filo da torcere agli occidentali. E di qui anche l’esplicito sostegno del regime di Hu Jintao a Putin. Fra cinesi e russi le relazioni restano tiepide. Su un punto di fondo Mosca e Pechino restano però sorelle: l’orrore per il “caos”, per le “rivoluzioni colorate”, intese come interferenze americane nei loro affari domestici, mascherate da sostegno a movimenti presuntamente democratici. I precedenti “colorati” nell’ex Unione Sovietica – Ucraina in testa – non sono comunque incoraggianti né dal punto di vista degli interessi geopolitici americani né quanto a progressi verso gli standard occidentali. Eppure Putin appare nervoso. Le proteste l’hanno sorpreso. Certo il capo non si tirerà  indietro. Ma quella che fino a ieri sembrava un’autostrada destinata a riportarlo al Cremlino fino al 2024, oggi si rivela un percorso tortuoso, pieno di trappole. Putin passerà  alla storia come lo zar che nei suoi primi otto anni da presidente ha salvato la Russia dalla disintegrazione totale. Ma saprà  inventarsi un ruolo per il terzo mandato? Vedremo se il Putin 3.0 sarà  quello della modernizzazione economica e di qualche prudente riforma di segno liberale, oppure se inaugurerà  una nuova età  dei torbidi.


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