Arabia Saudita, continua la repressione silenziosa

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Si parla anche di Arabia Saudita quando è in gioco la questione iraniana. I due paesi, affacciati sulle due rive opposte del Golfo Persico, si contrappongono per ragioni storiche, religiose e di odierna geopolitica: l’Arabia gioca di sponda con gli Stati Uniti, considerati dagli eredi dell’Ayatollah Khomeini come il “Grande Satana”. Ancora una volta i Saud stanno dalla nostra parte e quindi è meglio tenerseli buoni.

Il silenzio infatti sembra essere sceso sulle proteste, sulle manifestazioni e sulla repressione in atto proprio in Arabia Saudita, sul modello delle altre rivoluzioni nei paesi arabi. Ricapitoliamo alcuni fatti. All’inizio di marzo l’Arabia ha inviato una trentina di mezzi corrazzati per aiutare la repressione delle proteste nella vicina isola del Bahrain che, oltre ad ospitare il circuito del Gran premio di Formula 1, è una monarchia sunnita molto vicina a Riyad che governa con il pugno di ferro la maggioranza della popolazione sciita da sempre in tumulto. I carri armati sono ancora lì e gli scontri pure, come dimostrano le manifestazioni di questi ultimi giorni.

In marzo anche la monarchia saudita ha dovuto affrontare forse la più ampia protesta nella breve storia del regno: centinaia di persone hanno partecipato a diverse dimostrazioni tenutesi in varie zone del paese anche in quelle dove si trovano i giacimenti petroliferi. La repressione è stata immediata con l’arresto di 300 persone; in aprile si contavano già  5000 detenuti, tra i quali giornalisti ed esponenti politici di opposizione che in questi mesi stanno affrontando dei processi davvero poco garantiti.

Fino ad oggi il regno wahhabita non è mai stato scosso da grandi manifestazioni ma con la crisi economica globale il quadro è cambiato e non bastano più i soldi del petrolio per calmare una popolazione che diventa sempre più povera. Come denunciato da Human Rights Watch e da altre Ong, in Arabia Saudita si impiegano poi immigrati provenienti principalmente dall’Indonesia o dal Bangladesh, costretti in condizioni di quasi schiavitù e poi magari, come è avvenuto di recente, condannati a pene severissime (anche a morte) per essersi ribellati ai padroni.

Se questo generale clima irrequieto dovesse saldarsi con i tradizionali conflitti etnico-religiosi la situazione diverrebbe esplosiva. La famiglia regnante ha fatto sfoggio di riformismo promettendo, per il 2015, il diritto di voto alle donne per le elezioni amministrative (le uniche che si tengono): una mossa di pura propaganda estera che nulla ha servito per calmare le acque. Storicamente avviene spesso così. Regimi autoritari tentano in extremis riforme, che però non intaccano il potere consolidato. Seguono altri tentativi di riforma ma ormai è troppo tardi.

Infatti, a fine novembre 2011, sono scoppiati nuovi tumulti nella regione petrolifera di Al-Qatif, situata sulla riva del Golfo persico e popolata per la maggior parte di sciiti: testimoni oculari parlano di repressione indiscriminata, spari sulla folla, cecchini ai funerali. Se le autorità  ammettono 4 morti vuol dire che la situazione è ben peggiore.

Un documento di Amnesty International (consultabile in inglese in .pdf), pubblicato il primo dicembre scorso invita a monitorare bene la situazione soprattutto per quanto riguarda le modifiche delle norme legislative saudite che vanno nella direzione di un’ulteriore riduzione dei diritti civili in nome della sicurezza. Nel documento si legge tra l’altro: “mentre gli argomenti utilizzati per giustificare questa repressione ad ampio raggio, le pratiche abusive che sono state applicate dal governo dell’Arabia Saudita sono simili in maniera preoccupante a quelle usate a lungo contro persone accusate di azioni terroriste”.

Abbiamo già  visto che le rivoluzioni del mondo arabo rischiano di creare tensioni e caos. Una rivoluzione in Arabia Saudita manderebbe in pezzi il paese con conseguenze imprevedibili: ma il tempo del sostegno dei regimi a prescindere sembra proprio essere finito.


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