Asor Rosa e Capossela “Così Conrad è musica”

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Metti una mattina a casa di Alberto Asor Rosa, nel cuore della Città  del Vaticano, imbucato in una conversazione tra il quasi ottantenne autore di Scrittori e popolo e Vinicio Capossela, il più letterario dei cantautori italiani. La loro stima reciproca, nonché la curiosità  di conoscersi e parlarsi di persona mi porta a svolgere il ruolo d’intermediario, in quello che si rivelerà  un dialogo sulla – chiamiamola così – plasticità  della letteratura. Non credo succeda spesso che la critica letteraria e la musica popolare dialoghino così direttamente, per il tramite di due loro illustri rappresentanti: perciò esser presenti, e darne conto, secondo me ha una sua importanza. Anche se il ruolo di ponte che dovevo svolgere si rivela subito sovranamente inutile, considerando con quanta accuratezza Asor Rosa si è preparato le domande.
Alberto Asor Rosa «Tempo fa, leggendo un saggio di una collega americana che si occupa di letteratura dell’emigrazione, mi sono imbattuto in una citazione proveniente da una tua introduzione alla Confraternita dell’uva pubblicato da Einaudi. Dopodiché ho letto un’altra tua introduzione a quelli che una volta si chiamavano I racconti dell’Ohio di Sherwood Anderson, di cui possiedo la prima edizione del 1955. Fante, Anderson: da cosa nasce l’interesse per questi scrittori?».
Vinicio Capossela «Fante per diretta contiguità  diciamo così di destino, poiché io come lui ho vissuto lo straniamento dell’appartenere a una comunità  in maniera marginale, per via dell’emigrazione. Sono nato in Germania da genitori provenienti dall’alta Irpinia, e sono cresciuto in Emilia – quindi mi sono subito riconosciuto nei destini raccontati da Fante. Anderson perché racconta storie anche lui molto radicate nella comunità  di cui fa parte, anche se in questo caso non c’è la marginalità . E poi è il tono di entrambi a riguardarmi, il timbro. Anderson soprattutto si porta ancora dietro l’eco del XIX secolo, quell’impronta biblica, puritana, per la quale, come in Conrad, gli errori sono irreparabili».
A. R. «Poi, da autori importanti ma ancora, diciamo così, umani, sei passato in questo ultimo disco ad autori decisamente “fuori misura”: Omero, la Bibbia, Dante, Conrad, Melville. Cioè ti riferisci a un sistema massimo per condensarlo in un piccolo testo. Come avviene questo lavoro di condensazione? Che rapporto c’è tra Lord Jim libro e Lord Jim canzone?».
C. «Io credo che in noi operi sempre una specie di setaccio, grazie al quale di alcuni libri noi sappiamo riconoscere un’ombra che ci appartiene. La canzone finisce inevitabilmente per parlare di quell’ombra. Nel caso di Lord Jim è la debolezza, l’errore: questo mi appartiene. E infatti la canzone ripete “sei uno di noi”».
A. R. «E qual è il criterio di scelta prevalente? Che cosa privilegia?».
C. «Privilegia quel punto che ti centra come un birillo e ti butta giù. Un punto scoperto che si attiva. A me i grandi autori fanno sempre un po’ male, perché aprono un varco tra noi e “quell’altra parte della vita”, soltanto intuita, ma necessaria a completarci. Io credo che nella letteratura non ci si possa nascondere, ma soltanto rivelare».
Qui l’eccezionalità  di questo incontro si rafforza ai miei occhi nell’assenza totale di obiezioni, da parte di Asor Rosa, nei confronti dell’operazione che Vinicio – per me un fratello, ho intitolato un romanzo col titolo di una sua canzone – ha appena confessato. Possibile che gli vada bene? E siccome le obiezioni non le fa lui, ne faccio una io. Così, per seminare un po’ di zizzania.
Senti, ma in questo tuo servirti del più alto pensiero letterario esistente per ricavarne canzoni non ti sembra di andare a rubare in chiesa? 
C. «No, onestamente no. Oltretutto a volte questi libri contengono già  delle canzoni. Moby Dick è pieno di canti e Billy Budd termina con una ballata. Sono riportate tra virgolette, strofa per strofa; stanno lì e forse aspettano di essere cantate. In realtà  passare per la grande letteratura epica è anche un modo di andare oltre il sé: sono archetipi che appartengono già  a tutti». 
E a lei, professore, tutto questo sta bene? Come la mettiamo con la sacralità  della letteratura? Non le sembra di doverla difendere da questo tipo di creatività  così onnivora, intrusiva? 
A. R. «Al contrario, devo dire che questa scelta di esprimersi attraverso i grandi personaggi della letteratura senza aggiungere un “sé” è qualcosa di molto raro, sia nella canzone sia nella poesia. Lui prende i grandi testi, li concentra in un’intuizione e li mette in musica. È encomiabile, secondo me. Il rapporto letteratura-massa è oggi abbastanza compromesso: il fatto che la grande letteratura arrivi a tanta gente attraverso questa mediazione musicale mi sembra davvero commendevole».
C. «Il fatto è che il lettore è più interessato al cosa, secondo me, che non al chi. Parlare direttamente di sé io lo vedo più che altro come un ingombro che l’autore mette tra sé e il lettore».
A. R. «Già . Tutto questo però potrebbe anche far pensare a un autore che si prende troppo sul serio: invece no, tu sei ironico e autoironico, e in brani come Pryntyl tu giochi, anche, con chi ti ascolta».
C. «Io mi considero innanzitutto un uomo di spettacolo. Anche solo il semplice fatto di metterci della musica ha a che fare, secondo me, con questo istinto che viene dal mondo dello spettacolo. La musica, tra le tante cose, è anche svago. Io credo che testo e musica siano dei vasi comunicanti. La terzina di Dante sulla lancia del Pelìde era già  usata dai madrigalisti, per cantare lo sguardo dell’amata. La sirenetta Pryntyl viene da un testo che Céline aveva concepito come “soggetto per balletto o cartone animato”, la cui epigrafe cita la musica come “edificio del sogno”».
A. R. «Certo. E come costruisci il rapporto tra questi testi così carichi di letteratura e la musica che deve trasportarli? Esistono dei modelli per costruirlo?». 
C. «Sì, ci sono sempre dei modelli – le arie d’opera, per esempio – , anche se io non mi pongo mai il problema in questi termini. Io resto fedele al motto “massimo risultato con il massimo sforzo”; oppure a una delle poche reminiscenze di chimica che mi sono rimaste dalla scuola, quella secondo cui un gas si espande finché ha spazio per farlo. Naturalmente molto deriva dalla struttura metrica del testo, dalla sua intrinseca musicalità . E soprattutto dalle parole, lavorarle come il ferro o il legno, fino a che non suonano. Alla fine tutto deve generare un’emozione, mettere in moto il meccanismo dell’evocazione». 
A. R. «Mi resta un’ultima curiosità : hai detto che i tuoi genitori sono nativi dell’alta Irpinia. Stai parlando forse della zona descritta da Francesco De Sanctis nel suo Viaggio elettorale? Quel pugno di case strette attorno alla sua Morra, nel collegio di Lacedonia, dove ottenne quei 360 voti che all’epoca gli valsero l’elezione in parlamento?».
Qui devo dar conto di un certo sbalordimento di Vinicio Capossela. Evidentemente, anche se ha di fronte un grande erudito, non si aspettava questa notazione.
C. «Esattamente quei paesi lì, di cui parla De Sanctis». 
A. R. «E anche Franco Arminio, che fa proprio un’operazione di “salvataggio” di quei paesi, di quelle realtà . E di che paese sono originari, i tuoi genitori?».
C. «Mia madre è di Andretta, detta “la Cavillosa”; mio padre è di Calitri, detta “la Nebbiosa”». 
A. R. «La Cavillosa mescolata con la Nebbiosa: sai che è un’ottima definizione di te come artista, alla fin fine?». 
È vero. Questa è forse la migliore definizione di Vinicio Capossela che abbia mai sentito. Ed è anche un’ottima maniera di terminare questa conversazione, che tanto strana alla fine non è stata.


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