Cambogia, 300 mila lavoratori a rischio

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Il commercio internazionale è argomento complesso e articolato. Ricco di aspetti tecnici, leggi e cavilli vari. Ma quando si parla dei lavoratori, soprattutto di quelli nei paesi in via di sviluppo, la discussione è molto più semplice. Basta rivolgersi alcune domande e la situazione è subito chiara: sono rispettati i loro diritti? Vengono pagati adeguatamente? Spesso, troppo spesso, la risposta è negativa, ma per il settore del tessile in Cambogia, invece, la questione è diversa.

Il picco stato del sud-est asiatico si è guadagnato nel corso degli anni un’ottima reputazione in tema di protezione dei diritti dei lavoratori. Un qualsiasi prodotto d’abbigliamento che riporti il marchio “Made in Cambodia” è oggi sinonimo di qualità  in termini di condizioni di lavoro per chi l’ha prodotta. Alcune tra le più grandi multinazionali sensibili ai temi sociali affidano parte della loro produzione alle fabbriche cambogiane. Il settore non è molto grande, specialmente se confrontato con quello della Cina o del Bangladesh, ma si tratta pur sempre di 300 mila operai.

Tutto questo, però, potrebbe finire. L’approvazione di una nuova legge che legalizza l’utilizzo del lavoro dei carcerati da parte delle compagnie private, comprese quelle nel settore tessile, potrebbe far sfuggire di mano la situazione alle autorità  locali e far tornare indietro di decenni la Cambogia.

La Ong americana Human Right Watch, per bocca del suo vicedirettore per l’Asia, Phil Robertson, denuncia la pericolosità  della legge: “Improvvisamente, i direttori delle prigioni si trovano a disposizione una forza lavoro che possono usare per contratti di fornitura di manodopera ad un prezzo che è solo una frazione di quello che un’impresa pagherebbe ad una persona libera”. Infatti, l’articolo 71 della legge approvata dal Senato cambogiano dà  al direttore delle prigioni il potere “di stipulare contratti che permettono ai carcerati di lavorare per qualsiasi organizzazione o singolo imprenditore”.

I gruppi per la difesa dei diritti umani dicono che la legge va contro le leggi sia cambogiane che internazionali, in particolare la Convenzione nr. 29 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che vieta il lavoro forzato od obbligatorio, ratificata anche dalla Cambogia.

La preoccupazione maggiore è data dalle gravi condizioni in cui vivono i carcerati. Secondo la Ong cambogiana Licadho, il governo paga appena 70 centesimi di dollari al giorno per sfamare un singolo detenuto, per non parlare del sovraffollamento delle carceri. In queste circostanze, lo sfruttamento è diffuso e pagare le guardie è l’unico mezzo per garantirsi le condizioni migliori. Chi non può farlo, è destinato a vivere nello squallore.

Se il governo non riuscirà  a porre un controllo ai direttori delle carceri, le imprese “socialmente sensibili” potrebbero interrompere gli ordini. E a perderci, sarebbero soprattutto quei 300 mila lavoratori.


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