Cicale, formiche e recessione: si ingrossa il fiume della sfiducia nell’euro

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In Francia, secondo un recente sondaggio, il 36% dei cittadini vorrebbe tornare al franco, mentre il 45% pensa che la moneta unica sia stata un handicap per l’economia del paese. In Germania, il paese che ha tratto maggiori vantaggi dall’euro, secondo un sondaggio dell’istituto Allensbach due tedeschi su tre affermano di non avere fiducia nella moneta unica. Molti paesi della zona euro sono colpiti dalla recessione e l’euro è la facile preda di tutti i sospetti. La crisi dei debiti sovrani ha rivelato che la moneta unica, nata senza potersi appoggiare su una politica economica comune, non ha corretto ma addirittura esasperato gli scarti di produttività  che esistevano nel 2002: i paesi cicala, Grecia in testa, ma anche l’Italia, hanno potuto prendere a prestito beneficiando dei tassi di interesse «tedeschi». Oggi i nodi sono venuti al pettine e i paesi formica, a cominciare dalla Germania, rifiutano di fare da garanti, in uno sforzo solidale con gli stati in difficoltà . 
Due affluenti hanno contribuito ad ingrossare il fiume della sfiducia nell’euro. Da un lato, in tutti i paesi la mancanza di pedagogia politica ha permesso che si incrostasse l’idea che l’euro è la causa dell’aumento dei prezzi e della perdita di potere d’acquisto dei salari. In dieci anni, in media i prezzi delle merci correnti sono aumentati tra il 20 e il 45% e ogni paragone con le vecchie monete è sfasato, perché non solo i prodotti in vendita sono cambiati, ma anche se fossero rimasti in lire o in franchi avrebbero subito aumenti (le statistiche dicono che negli ultimi dieci anni i prezzi nella zona euro sono aumentati solo leggermente di più di quanto non lo siano stati nei dieci anni precedenti, dal 1992 al 2002). Il potere d’acquisto dei salari è diminuito per la vittoria del capitale sul lavoro. Il secondo elemento che ha alimentato la sfiducia è l’incompletezza della costruzione europea. Di fronte alla crisi dei debiti e alle minacce sulla moneta e l’economia, i capi di stato e di governo hanno reagito, con confusione e ritardi. 
Ora in calendario c’è il Consiglio del 30 gennaio, prima tappa per definire i contorni del nuovo trattato deciso il 9 dicembre scorso da 26 paesi su 27 (la Gran Bretagna si è autoesclusa), che dovrebbe venir firmato entro il prossimo marzo. Questo nuovo trattato, che, secondo il volere della signora di ferro europea, Angela Merkel, dovrà  «incidere nel marmo» le regole della buona gestione finanziaria degli stati, ha già  tutte le caratteristiche per deludere i cittadini: l’Europa mostra solo il suo volto austero in economia, mentre limita l’intervento politico (il parlamento europeo non è neppure citato e sembra destinato a perdere influenza, i parlamenti nazionali passano in secondo piano nelle decisioni sulla finanziaria, che verrà  esaminata nel “semestre europeo” in prima battuta dai governi partner della Ue). Il nuovo trattato, che si pone ai margini della costruzione comunitaria creando di fatto un’Unione parallela a velocità  variabile, sancirà  una pericolosa perdita di sovranità  non solo dei singoli paesi ma anche dell’Europa tutta intera. Il 9 dicembre, il Consiglio ha deciso di affidare al Fondo monetario internazionale la gestione della crisi europea, prestandogli 200 miliardi di euro (il 2% del pil della zona euro), per eventuali interventi a favore di Spagna e Italia, rifiutando contemporaneamente di aumentare il Fesf (il Fondo salva stati) e il suo successore, il Mes (Meccanismo europeo di stabilità ).


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