Corea del Nord, rapporto dal parallelo della paura

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PANMUNJOM (confine tra Corea del Nord e Corea del Sud). La morte di Kim Jong-il, replica perfetta della liturgia messa in scena per suo padre nel 1994, entra negli occhi del mondo attraverso le immagini della folla di Pyongyang, in lacrime e in ginocchio per il distacco dal suo dio-eroe. Oltre il filo spinato steso lungo il 38° parallelo, il Muro di Berlino dell’Asia che da cinquantotto anni separa la realtà  dalla finzione delle due Coree, l’addio all’imperatore dell’ultima dinastia comunista sopravvissuta all’ascesa del capitalismo d’Oriente, appare invece segnato più dalla paura e dallo stupore, che dal lutto. Nel villaggio-vetrina di Panmunjom, avamposto estremo nella zona demilitarizzata sospesa tra Sud e Nord, i militari nordcoreani che sigillano la frontiera non piangono affatto e oggi hanno l’ordine di non sparare ai manifesti degli esuli che esultano per l’infarto che avrebbe infine «fatto giustizia di un assassino». Davanti alla tivù, il decesso del “Caro Leader” sembra seguito dall’inconsolabile lamento di un popolo che si sente orfano. Tra gli spettrali fuggiaschi del regime, che dalla notte ingrossano le file di un esodo dal Nord impetuosamente ripreso e a quanto pare tollerato, la notizia che il profeta stalinista della dissuasione atomica non è sopravvissuto ai suoi eccessi, si rivela al contrario accolta da un generale sollievo, velato dall’ansia del futuro. 
Dalla nazione inaccessibile, chiusa ora anche alle delegazioni internazionali, filtra il racconto di una capitale blindata, riempita di figuranti della propaganda e paralizzata. Le forze armate, fino ad ora passate agli ordini del “Grande Successore” Kim Jong-un, vietano agli abitanti dei villaggi di spostarsi e li invitano a restare chiusi in casa. Nella Corea del Nord i dodici giorni di lutto nazionale si traducono in scuole, uffici e negozi sbarrati, coprifuoco giorno e notte, popolazione scomparsa e strade riservate ai movimenti di 1,2 milioni di soldati. Un rituale del terrore, contrabbandato per condivisione del dolore, che tradisce una lunga preparazione e che smentisce la narrazione di un decesso improvviso a bordo di un treno blindato lanciato in fondo al buio. Con il trascorrere delle ore, l’incerta transizione dell’egemonia di padre in figlio strappa al mistero l’evidenza di due nazioni. Quella creata dai vertici delle forze armate e del partito comunista, incollata alla tivù o impegnata nel recitare il ruolo della folla inconsolabile, e quella reclusa che, se versa una lacrima, è per il presentimento dei nuovi sacrifici che l’attendono. 
Tra Seul e Pyongyang, in una terra obbligata a piangere senza provare dolore e costretta a esultare senza essere felice, la paura è la sola emozione condivisa ed è difficile capire chi sia più spaventato dall’idea di irritare il proprio nemico. Il sole non era ancora sbucato dalla collina che nasconde l’artiglieria puntata su Seul quando, per ordine del governo del presidente Lee Myun-Bak, dalla frontiera che taglia Panmunjom è stato rimosso l’enorme albero di Natale del Sud che avrebbe dovuto far sentire ancora più poveri e umiliati i fratelli del Nord. Cinque squadre di soldati, a bordo di mezzi prestati dalla base militare americana, hanno smontato l’abete d’acciaio illuminato da ventimila lampadine, sparato in faccia ad un nemico che forse già  non c’era più. Dopo tre ore se ne sono andati senza dire una parola, tra gli applausi degli stessi operai sudcoreani che ogni giorno passano nel Nord per raggiungere il distretto industriale di Kaesung. Dalla capitale del cosiddetto mondo libero sono partite anche inedite condoglianze per «il popolo nordcoreano», inviti a «riprendere un dialogo di pace» e poco prima di mezzogiorno è stato interrotto il lancio di 400 palloncini che dovevano far volare tra i sudditi della famiglia Kim il ritratto del fresco defunto, corredato da inni di gioia per il suo decesso. 
Seul, come Pechino, non invierà  delegazioni al funerale del 28 dicembre, ma la mano tesa è stata prontamente stretta dal giovane Kim Jong-un, investito despota in cerca di riconoscimento. Le esercitazioni militari del Nord sono state sospese per tutto l’inverno, i soldati richiamati nelle caserme ed è partito l’ordine di far cessare slogan e minacce verso Washington e Seul. Dentro e fuori l’enigmatico universo fondato su una pace senza pace e su una guerra senza guerra l’imperativo collettivo è sostenere disperatamente il mistero di un successore di cui non si conosce nemmeno l’età , preferendo il male di uno scenario brutto al disastro di una prospettiva peggiore. Nella sospensione di una tregua innescata dalla giustificata assenza temporanea di un nemico, mentre il presidente cinese Hu Jintao varcava personalmente l’ambasciata nordcoreana di Pechino per le condoglianze e i telefoni dei leader di tutte le potenze mondiali si intasavano di inviti alla stabilità , quello che la propaganda di Pyongyang ha ribattezzato «grande e rispettato compagno, inarrivabile guida spirituale e ideologica del nostro popolo», ha fatto il suo debutto sulla scena globale del potere. 
Gli opposti orfani della due Coree hanno trascorso ore ipnotizzati davanti alle immagini ossessive del vero passaggio delle consegne. Kim Jong-un, nella nuova divisa di generale a quattro stelle, senza aver mai fatto un giorno di servizio di leva ha aperto la camera ardente dove nella capitale del Nord è stata deposta la bara del padre Kim Jong-il, dentro il Memoriale Kumsusan in cui riposa anche la mummia del nonno Kim Il-Sung. Una musica solenne ha introdotto il minuto di silenzio e il prolungato raccoglimento del leader-ragazzo che dovrà  decidere cosa fare di almeno sei testate atomiche. Kim Jong-il è tornato ad essere solo un corpo come quello di chiunque, rivestito del suo anacronistico abito color cachi, sintetizzato tra due cifre d’oro, “1942-2011”, coperto da un mantello rosso e disteso in una cassa di cristallo posata sopra un mantello di Kimjongilie, i fiori bianchi e rossi ribattezzati con il suo nome. La cerimonia, studiata per rassicurare sulla tenuta della successione ed esibire i volti di generali e parenti chiamati a vegliare sulla sorte della nuova divinità  di Pyongyang, ha confermato l’attuale volontà  generale di non consegnare ora alla storia un relitto del passato.
Chi in queste ore riesce a fuggire dal Nord sostiene che il “Caro Leader”, presto trasformato a sua volta in mummia per esigenze di nazionalistica venerazione, sarebbe stato ucciso nelle scorse settimane da generali epurati per fare posto al figlio, o da un cancro al pancreas giunto all’ultimo stadio. È la paradossale spy-story di una condanna annunciata, il sacrificio del padrone sconfitto di un regime agonizzante: universalmente noto a tutti fuorché ai servizi segreti di Corea del Sud, Usa e Giappone, ora sbattuti tra la condanna e il ridicolo. Proprio chi giurava di sapere, per 51 ore è rimasto all’oscuro di una potenza nucleare fuori controllo, apprendendo dalla tivù la notizia inseguita per anni e infine bucata come già  quella del compimento del programma atomico che minaccia l’Oriente. Tra Seul e Pyongyang l’obbligato tentativo di prolungare il regime di Kim in Kim, premiato dal sollievo delle Borse che puniscono solo l’incertezza, oscilla così tra recita e paura, sopra rabbia e minacce, dentro gli interessi e il dolore, il cinismo e l’inettitudine, la speculazione e le illazioni che da cinquantotto anni insistono nel rianimare il cadavere di un inoffensivo conflitto spaventoso a cui nessuno intende rinunciare. 
Ieri era Mosca, a sfruttare schiavi e padroni della Corea del Nord per allontanare dall’Asia la tentazione della democrazia. Oggi è la Cina, atterrita dall’instabilità  sulla porta di casa e da un “effetto-rivoluzione” nell’anno che ha visto l’ebbrezza della libertà  rovesciare regimi considerati incrollabili. Ma anche la gente di Seul, per la prima volta, questa sera confessa che costa infine meno continuare a finanziare la farsa del terzogenito dei Kim posto sotto la tutela degli zii, piuttosto che trovare subito cento miliardi di euro per assorbire una riunificazione alla tedesca, o l’inarginabile ondata di 24 milioni di profughi. Cina e Usa nella notte hanno così convenuto che un campo di battaglia internazionale dove nessuno muore, fuorché chi lo abita, va oggi tutelato come un parco. Senza il “Caro Leader” nulla sarà  più come prima, ma con il “Grande Successore” tutto deve dunque restare com’è. E lungo il confine di Panmunjom, dove i militari del Nord e gli attivisti del Sud questa sera sentono di essere ridotti a figuranti del medesimo destino che li esclude, ci si prepara «al funerale più sacro»: desiderando che sia l’ultimo, ma sperando che non lo sarà .


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