È a Ovest la nuova frontiera dello sviluppo

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CHONGQING (SICHUAN) – Perché l’abitato di Xiyong cambiasse anima sono bastati tre anni: tanto poco c’è voluto per estirpare l’antico cuore contadino e trapiantare al suo posto un parco tecnologico destinato a essere uno dei più grandi poli di produzione elettronica della Cina. Detonatore del Big Bang, la confluenza di due titani del settore, la taiwanese Foxconn e l’americana Hewlett Packard (Hp), che il governo della municipalità  di Chongqing, di cui Xiyong fa parte, ha scelto come «teste di drago», punte di lancia dello sviluppo It. Per allettarle ha garantito loro tutte le agevolazioni che 30 anni fa hanno attirato i capitali sulla costa: fiscalità  minima, terra, acqua ed elettricità  a prezzi stracciati, manodopera locale sprovveduta e a buon mercato – ma qui anche istruita e qualificata, grazie alla sinergia con le università  che si sono trasferite nell’area. 
Per fare largo agli enormi impianti, parallelepipedi alieni bianchi, grigi e neri, dieci villaggi sono stati abbattuti e tremila contadini hanno dovuto sloggiare dalle proprie terre per andare ad affollarsi, i più fortunati, in nuovi squallidi falansteri adiacenti al parco tecnologico, che alla fine del suo sviluppo dilagherà  su quasi 300 ettari. Pochi hanno resistito. Chi lo ha fatto è stato picchiato, chi voleva andare a protestare a Pechino per le illegalità  nel processo di requisizione e per i risarcimenti troppo bassi, è stato bloccato dagli emissari del governo locale nella capitale, detenuto per alcuni giorni e poi rispedito a casa. Il consenso dei più era legato alla speranza che lo sviluppo industriale avrebbe garantito un nuovo lavoro, a risarcimento di quello perduto, ma i signori dell’elettronica avanzata hanno bisogno di sangue fresco e giovanissimo che sostenga i ritmi infernali delle delicate e precise produzioni, che metta a disposizione le proprie cognizioni . E a Xiyong non hanno fatto eccezione.
Non hanno più di vent’anni e alcuni sembrano ancora nella prima adolescenza le ragazze e i ragazzi che a coppie o in piccoli gruppi entrano ed escono dai dormitori della Foxconn divisi per sesso, palazzoni antracite e arancione di 10-15 piani collegati da camminamenti sospesi che danno un brivido. Perché il pensiero corre ai 15 ragazzi che alla Foxconn di Shenzhen lo scorso anno si sono gettati nel vuoto sfracellandosi. Dall’esterno si scorgono stanze minuscole e uno schermo televisivo, talvolta acceso. Le verande sono stipate di abiti appesi e le file di scarpe allineate strette rimandano a una densità  interna che toglie il fiato. In ogni stanza dormono in otto, ci dicono dei ragazzi che non hanno troppa voglia di fermarsi a parlare. Fanno in tempo a dire che pagano 100 rmb (poco più di 12 euro) * al mese per il dormitorio. Un rapido calcolo sulle migliaia di stanze fa capire che anche il sonno operaio genera profitti.
La lavorazione di componenti elettroniche per i laptop della Hp, il cui quartier generale è a poca distanza, è iniziata nel maggio del 2010. Lo stabilimento ha avviato l’attività  con 10mila operai ma lungo tutto l’opificio centrale, sul lato opposto della strada che lo costeggia, si allunga una sequela di nuovi dormitori, 20 file da 4 palazzi di 10 piani ciascuno, ultimati ma ancora vuoti. All’orizzonte le gru ne innalzano altri ancora. Entro il 2014 dal parco tecnologico, prevedono i piani, usciranno ogni anno 80 milioni di pc. Le più grandi compagnie mondiali dell’elettronica, dalla Acer alla Quanta alla Inventec, con tutto il corteggio dell’indotto necessario, stanno convergendo nell’area attirate dal Great Western Development che ha dato alla municipalità  di Chongqing (33 milioni di abitanti, 23 milioni dei quali contadini) poteri speciali per procedere allo sviluppo. 
L’amministratore delegato della Foxconn Terry Gou, che a Shenzhen ha imposto le reti di protezione, gli esorcisti buddisti e la sottoscrizione dell’impegno a non suicidarsi, ha annunciato da tempo che entro il 2014 oltre un milione di robot sostituirà  gli operai nelle sue fabbriche. I vantaggi di questa sostituzione sono intuibili, dal suo punto di vista. Ma a Xiyong l’usanza di far lavorare gli umani, sia pure come robot, è ancora in auge.
Weichuan, 22 anni, figlio di un ex commerciante di carne d’anatra del Sichuan, aspetta paziente che qualcosa arrivi anche per lui. Con il padre oggi condivide la guida di un taxi a tre ruote rosso fiammante che scorrazza con un rumore infernale sobbalzando sulle strade spianate in fretta e irregolari di Xiyong. Così giovane ha già  un passato da veterano Foxconn. Sei mesi nella fabbrica di Shenzhen, sei mesi a Chongqing. Non lo rimpiange di sicuro quel lavoro che lo inchiodava in piedi alla linea di montaggio dalle 8 del mattino alle 8 di sera, pause pasti e straordinari inclusi. 
A Shenzhen le condizioni erano decisamente peggiori, date le dimensioni della fabbrica, 400mila operai. In quella immensa comunità  di migranti arrivati da lontano si stava male. Ricorda che a nessuno piaceva la vita della fabbrica. Dei suicidi era al corrente ma non vi si riconosce, dice che sono stati pochi e legati più che altro a un fattore psicologico. Ricorda bene però la micro conflittualità  nei reparti. Coinvolgeva al massimo 20-30 operai ma era frequente: esplodeva per le condizioni di lavoro, il cibo scadente della mensa, gli straordinari e avveniva soprattutto nei fine settimana durante gli straordinari.
Ad attirarlo era stato il salario, che nel 2009 alla Foxconn era più alto della media di Chongqing. Poi è cominciata la produzione nella sua zona di origine, con salari più alti, tanto che alla fine, tra stipendio base e straordinari, è arrivato a portare a casa 2000 rmb al mese. Quanto prendeva a Shenzhen dove però, nel frattempo, lo scalpore dei suicidi aveva fatto alzare i salari del 30%. A Chongqing, dice, gli operai vengono quasi tutti dall’area della municipalità , hanno le famiglie vicine, c’è meno sconforto. Ma anche qui Weichuan ha retto poco più del tempo medio di permanenza di un operaio Foxconn, che secondo le ricerche della sociologa cinese Pun Ngai è di cinque mesi. 
Così ha deciso di mettersi a guidare il tre ruote del padre, un lavoro che frutta in media 3000 yuan al mese e una libertà  impagabile. Il suo sogno è ora di mettere da parte abbastanza soldi per aprire un ristorante. Con i piani di sviluppo della zona, dice, gli affari sono assicurati, anche se la grande aspettativa ha mosso la speculazione e i costi degli affitti in rapido aumento allontanano la realizzazione del suo sogno. I soldi sono la sostanza e il limite del suo orizzonte. Non averne abbastanza è un rovello e un’umiliazione perché oggi in Cina il denaro è la misura di ogni cosa. Si meraviglia perché non abbiamo un IPhone Apple. Lui se l’è comprato, e grazie allo sconto aziendale ha rinunciato «solo» a due mesi di salario.
La vita di Weichuan rimanda ai flussi incessanti delle vite cinesi di oggi, in un luogo, Xiyong, dove tutto appare sradicato. Gli operai ragazzini stretti tra dormitori e fabbrica, i contadini senza terra appesi a un mitico «sviluppo» che li userà  solo come comparse. E’ scioccante il contrasto tra questo paesaggio d’anime e il mirabolante futuro delineato dai piani governativi. Così, nonostante il locale segretario del Pc, Bo Xilai, inneggi al socialismo come nessun governante cinese ormai fa più, conquistandosi l’epiteto di «maoista», e assicura che i profitti del «suo» sviluppo saranno equamente ridistribuiti, appare già  vecchia la nuova frontiera dell’Ovest cinese, che avanza verso l’interno per decongestionare l’Est della prima era di riforme, dove le fabbriche sono già  in parte logore, gli operai-migranti sempre più combattivi, i territori esausti e inquinati, le metropoli sovraffollate.
Sulla costa adesso sono ripartiti scioperi e proteste; ma, diversamente dalla grande sollevazione che nel 2010 lottò per forti aumenti salariali e il diritto ad avere rappresentanze sindacali elette, alla ribalta della cronaca sono tornate oggi soprattutto battaglie contro l’arretramento provocato dalla crisi che morde anche la Cina: contro la riduzione degli straordinari e l’erosione dei salari , la dislocazione delle fabbriche e i licenziamenti. 
Osservando da Xiyong quel che sta accadendo nel resto del paese viene da chiedersi se ci sarà  mai un territorio, fisico, sociale, identitario, in cui i lavoratori cinesi, soprattutto i nongmingong, i migranti, possano mettere radici e diventare forti prima che tutto torni a franare loro sotto i piedi, costringendoli a fluttuare all’infinito, inchiodandoli alla sottomissione.


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