E ora Rajoy dovrà  governare

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Mariano Rajoy è da ieri, ufficialmente, il sesto capo di governo spagnolo dal ritorno della democrazia nel 1977. Come previsto, il leader del conservatore Partido Popular ha ottenuto la fiducia della maggioranza assoluta della Camera, a conclusione della seconda giornata del «dibattito d’investitura». 187 voti su 350: i 185 del Pp e i due di pasrtiti satelliti in Asturie e Navarra; 149 i no, quelli del Psoe, di Izquierda unida, dei catalani di CiU, della UPyD della ex socialista Rosa Diez, dei galiziani di GeroaBai e dei verdi di Compromis-Equo; 14 le astensioni, quelle dei baschi del Pnv e (a sorpresa) del nazionalisti radicali di Amaiur e quelle della Coalicion Canaria.
A differenza di lunedì, non è più stata l’economia a farla la protagonista assoluta degli interventi: al centro della discussione, cui hanno preso parte i gruppi con minore rappresentanza parlamentare, sono stati soprattutto il rapporto stato centrale-autonomie regionali e il «processo di pace» nei Paesi baschi. Un tema spinos che per la prima volta un premier incaricato aveva completamente omesso dal suo discorso di investitura. Un tema sollevato in particolare dagli interventi dei due principali partiti nazionalisti baschi, il Pnv (di centro-destra) e la colazione della sinistra indipendentista Amaiur (dove è confluita anche l’illegalizzata Batasuna), che hanno insistito sulla necessità  di gestire politicamente la fase che si è aperta con la dichiarazione di «cessazione dell’attività  armata» da parte dell’Eta. Nell’agenda proposta dai nazionalisti rientrano una revisione della politica penitenziaria, che permetta ai reclusi «etarras» (circa 800) di essere trasferiti in carceri all’interno della comunità  basca e – elemento di novità  – il riconoscimento di «tutte le vittime del conflitto»: chi fu ucciso dal terrorismo basco ma anche dal terrorismo di stato degli anni ’80. 
Da Rajoy sono giunte risposte (come sempre) prudenti, che non cambiano la linea tenuta sin qui, che, va riconosciuto, è più moderata e conciliante di come vorrebbero certi settori ultrà  all’interno del suo partito. Per alcuni importanti esponenti del Pp come la presidentessa madrilena Esperanza Aguirre o l’ex ministro degli interni Jaime Mayor Oreja, infatti, il passo compiuto dall’Eta è solo un inganno, che andrebbe come tale semplicemente ignorato: una tesi insistentemente ripetuta anche da quella che in Spagna si conosce come «derecha mediatica», un insieme di aggressive testate di destra come El Mundo o catene televisive e radiofoniche come la Cope (della Conferenza episcopale). Il neopremier ha ribadito di ritenere l’annuncio dell’Eta «una buona notizia» e ha lasciato intendere di essere cosciente che si sia aperta una nuova fase. Impegni concreti, tuttavia, Rajoy non ne ha assunti, limitandosi a promettere di dialogare alle Cortes col Pnv.
Il timore che il nuovo governo dei populares rappresenti un ritorno al centralismo di sapore franchista è emerso in quasi tutte le dichiarazioni di voto delle forze regionaliste e nazionaliste, tanto moderate quanto progressiste. Nel discorso d’investitura di lunedi (giudicato da più parti molto vago), Rajoy aveva sottolineato la necessità  di «razionalizzare» l’attribuzione di competenze fra i distinti livelli dell’amministrazione pubblica. Ieri ha lievemente corretto il tiro, dicendo che non ha intenzione di alterare l’equilibrio sancito nella Costituzione. Parole che gli sono valse la benevola astensione dei nazionalisti baschi del Pnv, ma (un po’ a sospresa) non di quelli dei catalani di Convergència i Unià³ . L’astensione di CiU si sarebbe infatti inquadrata in un complesso gioco di favori reciproci, dal momento che CiU governa in minoranza la Generalitat e ha spesso bisogno dei voti del Pp a Barcellona. Le prossime settimane diranno se il comune credo neo-liberista riporterà  il sereno nei rapporti bilaterali. 
Oggi si conoscerà  la lista dei ministri e, di fatto, comincerà  la campagna per le regionali di marzo in Andalusia, l’ultimo bastione socialista che Rajoy vuole conquistare per fare cappotto.


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