Egitto, la rivoluzione cambia faccia trionfano gli integralisti islamici

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IL CAIRO. La rivoluzione ha cambiato faccia. L’irruzione nelle urne dei voti salafiti, degli integralisti islamici, ha stravolto i rapporti di forza, e la natura dello scontro cominciato in gennaio in piazza Tahrir. È bastato il primo appuntamento della maratona elettorale, destinata a durare sei mesi, per mutare i parametri della “primavera araba”.
E l’edizione egiziana è senz’altro la più importante e influente, rispetto a quella tunisina o libica. L’annunciato, ma non ancora ufficiale, successo dei partiti islamici, moderati e radicali, apre o accentua il confronto tra il fronte religioso e i militari, e marginalizza quello tra i rivoluzionari di piazza Tahrir e i militari. Quest’ultimi appaiono adesso come i potenziali difensori di una democrazia limitata, zoppa quanto si vuole, ma laica. Se ci si affida ai dati parziali, ma attendibili, i generali diventano paradossalmente una diga dietro la quale possono rifugiarsi i liberali e i rivoluzionari, insidiati da un legittimo potere, uscito dalle urne, che auspica l’applicazione parziale, se non proprio integrale, della legge coranica.
I risultati del voto per l’Assemblea del popolo nelle prime nove province (nelle restanti diciotto si voterà  fino a gennaio, per poi passare al Senato), darebbero il 40-45 per cento al partito moderato dei Fratelli musulmani, e circa il 20-25 per cento al partito integralista dei salafiti. Se questi dati saranno confermati nei prossimi appuntamenti elettorali, la maggioranza parlamentare sarà  determinata dall’ala radicale dell’Islam politico. Ed è questo che travolge i parametri della rivoluzione. Il successo dei Fratelli musulmani era scontato, non quello dei salafiti. In queste ore il trauma è dunque forte.
Le rivoluzioni sono zigzaganti, imprevedibili, conoscono fasi contraddittorie, sanno essere masochiste, chiedono tempo. Anni. Decenni. Quella egiziana non sfugge alla regola. In questa (forse effimera, non ultima) stagione, inaugurata dal voto programmato dai militari, con l’evidente intenzione di neutralizzare piazza Tahrir, i protagonisti del grande dramma politico non hanno più lo stesso ruolo. Anche i generali del Consiglio superiore della Forze armate, presidenza collettiva succeduta al raìs destituito, sono stati colti di sorpresa. Doveva essere un atto di disciplina nel confronto dei militari, e tuttavia l’imponente partecipazione all’elezione (si dice il 70 per cento) ha anzitutto rivelato il desiderio popolare di affidare il potere a istituzioni politiche, in particolare al Parlamento. Il risultato voluto o involontario è stato l’isolamento dei rivoluzionari, ma anche l’emergere imprevisto di un preoccupante estremismo religioso.
I Fratelli musulmani, prima dissociatisi dalla rivolta, e adesso in preda all’euforia della vittoria, affermano che con il loro voto massiccio gli egiziani hanno scelto il Parlamento contro i militari. È quel che sostiene Essam el-Erian, uno dei loro leader, aprendo una polemica con il Consiglio superiore delle Forze armate. Confronto che adesso prevale, appunto, su quello tra i militari e i rivoluzionari. I quali avrebbero ottenuto uno scarso risultato elettorale. Di gran lunga inferiore a quello dei liberali laici del “blocco egiziano”, che avrebbero raggiunto poco più del 20 per cento. Rispetto ai due grandi protagonisti, esercito e islamismo, piazza Tahrir sembra contare sempre meno. Funziona tuttavia da detonatore. Si vedrà  se sa ancora interpretare e alimentare le emozioni, le collere, insomma i sentimenti, le aspirazioni della società  civile, e delle masse giovanili che pesano poco nelle urne ma che sanno esprimere i valori all’origine della “primavera araba”.
I Fratelli musulmani hanno usufruito del prestigio conquistato con gli anni di prigione scontati dai loro militanti, e hanno usato la capillare organizzazione assistenziale (ospedali, dispensari, scuole), il solo sistema di welfare nel Paese. Nella città  e nelle campagne. Hanno raccolto ampie adesioni non solo nelle classi popolari. Molti affiliati sono professionisti affermati (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti) e hanno posizioni politiche moderate. Accettano i principi democratici, non esigono sconvolgimenti sociali o bruschi mutamenti nei rapporti internazionali. Non chiedono l’abrogazione degli accordi di Camp David, che nel ‘79 hanno stabilito rapporti diplomatici con Israele. Al massimo suggeriscono di rinegoziarli, in particolare per quel che riguarda la situazione nel Sinai, dove vorrebbero una presenza egiziana più intensa.
Come un tempo la sinistra, l’islamismo è diviso in numerose correnti. Lo stesso partito Libertà  e Giustizia, braccio politico della confraternita dei Fratelli musulmani, è frantumato in tendenze di sinistra, di centro e di destra, non soltanto per quanto riguarda il rispetto della legge coranica ma anche sul piano sociale. I giovani disubbidiscono, contestano gli anziani dirigenti. Molti hanno partecipato alle manifestazioni di piazza Tahrir, infrangendo gli ordini del partito. A destra e a sinistra di Libertà  e Giustizia sono sorti tanti movimenti in aperta concorrenza con la vecchia confraternita. E non mancano i mistici, come i sufi, dediti soprattutto alle pratiche religiose.
Di tutt’altra natura è Al Nur, partito salafita, ossia integralista, nato sulla scia della rivoluzione di gennaio, e subito appoggiato e finanziato dagli wahabiti dell’Arabia Saudita. Al Nur esprime un Islam politico intransigente. Proibisce l’alcol, non riconosce l’emancipazione delle donne, vuol dare un’impronta religiosa all’educazione dei giovani, ed esige che i principi della Sharia, la legge islamica, dominino la Costituzione repubblicana. Di recente lo Sheikh Hazem Shuman, ascoltato esponente salafita, ha fatto irruzione in un’università  dove si teneva un concerto e ha invitato i presenti ad andarsene, sostenendo che ascoltare quella musica fosse un peccato. È salito sul palco e si è presentato come un medico che cura l’Egitto ammalato di cancro.
Se confermato dai prossimi voti, il 20-25 per cento ottenuto dai salafiti di Al Nur nelle elezioni dei giorni scorsi risulterebbe determinante per formare una maggioranza parlamentare. Quindi un governo. Da qui l’inquietudine dei laici e dei rivoluzionari più arrendevoli. I quali cominciano a considerare con interesse la volontà  dei militari di collocarsi al di sopra delle istituzioni, anche se elette, e di conservare il diritto di intervenire sulle decisioni di quelle istituzioni. Ieri giudicata una decisione antidemocratica, quella pretesa dei generali può appare adesso come necessaria per frenare gli eccessi dei salafiti, investiti da un legittimo voto popolare ma in preda a un integralismo religioso difficile da vivere.
Una rivoluzione riserva continue sorprese; e non è dunque troppo azzardato immaginare che islamisti e militari tentino di trovare insieme, col tempo, la formula di un Islam politico valido per entrambi. Una formula alla turca.


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