Il rinvio della vecchiaia

by Sergio Segio | 9 Dicembre 2011 8:16

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Rivoluzionando il loro calendario esistenziale. «Io mica l’ho capito subito», racconta Michele Covelli, 55 anni e 2.052 bollini Inps all’attivo. Non ci ha messo molto però. La mattina dopo ha preso i giornali, consultato le tabelle sul ribaltone previdenziale targato Mario Monti e gli è venuto un colpo: «Ho lavorato 39 anni e sei mesi, ero convinto da luglio 2012 di dare l’addio all’ufficio e godermi l’esistenza con mia moglie». E invece in mezza giornata l’asticella della sua pensione si era alzata a luglio 2014.
Roba da leccarsi i baffi rispetto ai drammi dei dannati della classe ’52 come Mario di Castelvetro Piacentino cui – come recita la mail che ha inviato a Repubblica.it – «hanno rubato cinque anni di vita (leggi pensione, ndr) in un pomeriggio».
Lo spread, Frau Merkel e la lotta per il salvataggio dell’euro hanno per ora un po’ offuscato il loro dramma. La rivoluzione copernicana varata in manovra è destinata però a cambiare per sempre la vecchiaia degli italiani. E, di riflesso, il mondo del lavoro nel nostro paese. «I più giovani hanno capito da tempo che almeno fino a 70 anni dovranno rimboccarsi le maniche», dice Pietro Garibaldi, ordinario di economia politica presso l’Università  di Torino. I 2,7 milioni di Dorando Petri della previdenza, crollati a un passo dal traguardo, invece no. «Obiettivamente è una fascia di persone che aveva aspettative troppo alte e che ora dovrà  resettare da zero la propria esistenza», conferma Gianpiero Dalla Zuanna, professore di Demografia all’ateneo di Padova. «Un cambio di prospettiva in grado di provocare disagi anche gravi», anche per Massimo Livi Bacci, docente della stessa materia a Firenze.
C’è chi sognava la briscola al bar del paese, chi il pomeriggio al parco con i nipotini, chi il lavoro in nero, chi le gite con gli amici in bicicletta. Tutto cancellato il 4 dicembre quando si sono resi conto che invece della pensione anticipata li aspetta un futuro da «lavoratori maturi», come li classifica il sociologo Alessandro Rosina. O da «mancati pensionati», come scherza Covelli.
Il problema è che né loro né l’Italia sono pronti a questo choc. «Intendiamoci, dal punto di vista demografico non siamo davanti a una decisione strampalata», spiega Livi Bacci. L’età  media degli uomini italiani è cresciuta negli ultimi trent’anni da 70 a 79 anni, quella delle donne da 77 a 84. E le aspettative di Covelli & C. «sono state costruite spesso sulle spalle di altre generazione, per cui – più che di una penalizzazione – si tratta di una perequazione», dice Dalla Zuanna. Sarà . Chi è finito nel tritacarne però fatica a farsene una ragione. «Eppure – assicura Rosina – non dovrebbe essere difficile, visto che il lavoro dopo i 60 anni allunga la vita». Carta canta: «Tutti i test cognitivi confermano che chi tiene impegnato il fisico e la mente dopo questa soglia d’età  invecchia meno e vive meglio». E – fatto non secondario – guadagna di più visto che «lo stipendio da lavoro è in ogni caso maggiore di un assegno previdenziale», come assicura Garibaldi. Certo «si può rimanere attivi anche giocando a tennis a Capalbio», ride Livi Bacci. La generazione dei dannati della classe ’52 e dintorni, però, può consolarsi: passato lo choc del brutale annuncio di domenica, la vita dei mancati pensionati, in teoria, non è poi male.
Peccato, appunto, per l'”in teoria”. Nella pratica, infatti, l’Italia deve costruire dal nulla un nuovo quadro economico e normativo per adeguarsi ai lavoratori over 65 e rendere meno gravoso l’imprevisto tempo supplementare della loro vita professionale. La questione è lapalissiana. A 65-70 anni si rende meno che a 40. E non si possono certo passare ore in occupazioni troppo gravose. E non a caso negli altri paesi europei per i “nonni in ufficio” esistono regole ad hoc. Una è sorprendente: «L’apice della produttività  di un dipendente è tra i 50 e i 60 anni – spiega Garibaldi -. Superata questa boa anagrafica in diverse nazioni lo stipendio inizia a scendere, anche per incentivare le aziende a tenere occupati i lavoratori». La contropartita («oggi in Italia non funziona così», dice Rosina) è la formazione permanente. «Bisogna combattere l’obsolescenza professionale investendo sulla preparazione del capitale umano – aggiunge il professore delle Cattolica di Milano -. Conviene anche al datore di lavoro». Terzo capitolo, importantissimo, l’uscita soft. «Il modello di welfare per gli ex baby pensionati l’abbiamo già  sotto gli occhi – spiega Dalla Zuanna -. Sono gli artigiani e i liberi professionisti. Loro mollano poco alla volta. rallentano i ritmi, prendono in laboratorio i figli. E l’addio alla vita professionale, quando arriva davvero, è molto più indolore». Ergo: serve gradualità . «Bisogna imparare a utilizzare il part time, ridurre l’orario di lavoro giornaliero un’ora alla volta o spalmarlo su meno giorni alla settimana», suggerisce Garibaldi. Tenendo conto che, una volta stabilite le regole, bisogna prevedere le eccezioni. «Ci sono mestieri e professioni usuranti che da soli accorciano di qualche anno la prospettiva di vita di chi li esercita. E questa gente non può certo rimanere al lavoro fino a 70 anni», ricorda ad esempio Livi Bacci.
Alla fine hanno tutti da guadagnarci. Lo Stato paga meno pensioni e forma una terza età  più sana (risparmiando così pure sul sistema sanitario). La generazione indignata dei mancati pensionati, male che vada, arriverà  alla pensione più ricca di quanto sarebbe ora. I giovani perché non pagheranno più di tasca loro assegni previdenziali da nababbi ai loro padri, bruciando un pezzo del proprio futuro. Tutto è bene quello che finisce bene. L’unico problema, adesso, è spiegarlo a Michele, Mario e al girone infernale dei nati nel 1952.

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