Il virus dell’odio etnico

Loading

Non è solo a Bruxelles che l’Italia è sotto esame. Esiste un altro esame che riguarda il tasso di civiltà  del paese. E chi ci esamina sono i 5 milioni di abitanti che non sono ancora giuridicamente italiani e che cominciano a desiderare di non diventarlo perché temono non sia possibile convivere con noi. I nodi sono venuti al pettine tutti insieme: e tutti insieme vanno affrontati. Con singolare coincidenza il tentato pogrom di massa di Torino e la sparatoria del ragioniere nazista di Pistoia rivelano una diffusione del virus razzista e dell’odio etnico in un’Italia senza attenuanti, l’Italia ricca, colta e civile delle due città  che furono le capitali storiche dell’Italia risorgimentale: Torino e Firenze. Anche in questo caso il Paese è costretto a prendere brutalmente coscienza di qualcosa che è accaduto quasi sotto pelle, strisciando, riempiendo goccia a goccia gli interstizi sociali della convivenza, le maniere di pensare, i comportamenti, le pratiche istituzionali. Chi ricorda ancora il decreto Maroni sull'”emergenza nomadi” del 2008? Proprio in questi giorni, appena caduto il governo Berlusconi-Bossi, il Consiglio di Stato ha dato ragione alla sentenza del Tar di Roma che aveva bocciato il decreto e ha avviato lo smantellamento delle sovrastrutture amministrative create per quella minacciata, fantomatica emergenza. Ma chi smantellerà  un pregiudizio che si è intanto radicato in profondità  e si esprime nello stillicidio di una violenza quotidiana fatta di discriminazione a piccole dosi, per lo più impalpabile, diffusa nell’aria che si respira? Non basta la caduta del governo che ha lungamente e pervicacemente cavalcato il populismo e l’ostilità  etnica come strumento di dominio sulle menti impaurite della sua base. È col suo lascito nella coscienza collettiva che si devono fare i conti. Si pensi a tutto il parlare di identità , l’odiosa parola che ha eretto un muro di differenza e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori, che non coincide con le abitudini e coi pregiudizi dell’autosufficienza. 
E quando si parla di mercatini delle città  italiane come quelli di Piazza Dalmazia e di San Lorenzo, si dovrebbe provare a fare il conto delle misure vessatorie contro quei tappetini stesi sui marciapiedi, contro i borsoni dei venditori africani. Noi forse le abbiamo dimenticate. Ma loro no: è sulla pelle dei discriminati che l’odio e la sopraffazione lasciano il segno. Noi, gli italiani: loro, gli altri. Ecco la parola che fa problema: italiani. È venuto il momento di ridefinire questa parola. Il problema, come ha segnalato il presidente Napolitano, è quello della cittadinanza: che da noi ha un connotato sostanziale del razzismo, impermeabile com’è al dato di realtà  del nascere, vivere e lavorare in un luogo. È una questione urgentissima. I segnali di questi giorni hanno portato allo scoperto il fondo melmoso e fetido dove si è iscritto il razzismo come vincolo sociale tipico della società  dove vige l’eccezione giuridica. 
Un anno fa il rapporto sul razzismo in Italia firmato da Alfredo Alietti e Dario Padovan ha denunciato la diffusione di tendenze razziste nel 51% della popolazione italiana: un numero che coincide con la percentuale di chi si ritrae dalla partecipazione politica. Non a caso. Nella società  dell’eccezione giuridica la cultura del razzismo è un sentimento di rifiuto e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori. È qui che bisogna incidere. E non bastano i buoni propositi. Certo è di buon auspicio il fatto che il ministro Andrea Riccardi abbia rilanciato l’invito giunto dal presidente della Repubblica proprio davanti alla tomba di Jerry Maslo, il sudafricano ucciso a Villa Literno. Ma, come e più che per altre urgenze italiane, quella culturale e giuridica del diritto di cittadinanza non può più essere rinviata. Ce lo diceva lo sguardo dei senegalesi riuniti a Firenze: quei morti loro devono diventare i nostri morti.


Related Articles

Un’infermiera: «Mi disse che a picchiarlo furono i CC»

Loading

PROCESSO CUCCHI Continuano le udienze del processo per accertare le cause della morte del giovane Stefano Cucchi. Il romano 31enne, arrestato con l’accusa di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti, morì dopo un ricovero durato quattro giorni nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini.

Nocs, ecco le foto degli abusi in caserma

Loading

E un altro agente denuncia: “Chi veniva al corso poi finiva sotto shock”.    Gli atti di nonnismo nel quartier generale delle teste di cuoio venivano ripresi di nascosto

Bomba di Brindisi, confessa un benzinaio«

Loading

L’ho pensata e costruita da solo». L’ipotesi: una vendetta contro il Tribunale

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment