Iowa, parte il lungo cammino per trovare lo sfidante del presidente

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La selezione del leader più potente del mondo inizia come un’assemblea di condominio. Increduli, ammirati o scettici, stupefatti o sprezzanti, i cittadini del resto del mondo assisteranno in diretta il 3 gennaio al ripetersi di questo spettacolo: il “caucus” dell’Iowa darà  il via al lungo cammino della nomination presidenziale. Quest’anno la scelta riguarda solo il partito repubblicano, visto che in campo democratico si ricandida il presidente uscente, Barack Obama. Ma guai a sottovalutare quel “fischio d’inizio partita” fra quattro giorni.
La destra può conquistare la Casa Bianca a novembre. Con questi numeri di disoccupazione, nessun presidente è stato rieletto dal dopoguerra a oggi. Un mese fa Obama sembrava spacciato; solo di recente qualche fremito di miglioramento lo ha rilanciato: un po’ per merito dell’economia americana in leggera ripresa, un po’ per l'”effetto indignati” che ha riportato l’attenzione sulle ingiustizie sociali (tema che aiuta la sinistra), un po’ per la mediocrità  dei candidati repubblicani, nessuno dei quali supera il presidente nei sondaggi. Resta però che nel gennaio 2013 un repubblicano potrebbe insediarsi nello Studio Ovale. Ed è stupefacente – visto con gli occhi del resto del mondo – che questo signore (o signora), debba le sue chance anche al “caucus” dello Iowa. Che non è neppure una primaria vera. Somiglia a un meeting di caseggiato o a una festa di quartiere. Votano in media centomila persone, dopo aver dibattuto vivacemente meriti e svantaggi dei vari candidati in 1.774 assemblee di vicinato. 
Con questo happening che interrompe il rigidissimo inverno dello Iowa, il micro-laboratorio di democrazia diretta in stile ateniese s’innesta in una campagna combattuta a colpi di centinaia di milioni di dollari, con spot tv che si contendono l’attenzione del nuovo esercito di elettori attratti o manipolati attraverso YouTube, Facebook, Twitter. L’antico costume della partecipazione di base s’intreccia con lo scatenamento di arsenali tecnologici post-moderni. Il percorso prosegue a gennaio con tappe nel New Hampshire e South Carolina, solo poche manciate di delegati in vista della convention repubblicana, ma tanti test utili per far fuori i candidati più deboli, e focalizzare i pronostici sul grande scontro del 6 marzo, il Supermartedì dove grandi Stati mettono in palio il bottino più ricco di delegati.
Il meccanismo delle primarie ha un rovescio della medaglia, ben visibile in questa campagna: esaspera la polarizzazione. Tendono a mobilitarsi per le primarie gli elettori più motivati e impegnati: spesso sono anche i più radicali o addirittura fanatici. A destra il Tea Party (movimento anti-tasse e anti-Stato) sarà  sovra-rappresentato rispetto al suo peso effettivo nell’opinione pubblica. Lo saranno anche i fondamentalisti cristiani (soprattutto evangelici) con le loro posizioni estreme sull’aborto. Questo spiega le contorsioni di Mitt Romney, forse il più “eleggibile” dei repubblicani in una sfida finale contro Obama, perché per sua indole e storia è un moderato. Romney si porta dietro bagagli pesanti per l’elettorato dell’ultradestra: da governatore del Massachusetts adottò posizioni progressiste sull’aborto; approvò una riforma sanitaria pressoché identica a quella di Obama. Perciò fino a ieri la corsa virtuale tra i repubblicani ha avuto un andamento surreale: di volta in volta nei sondaggi saliva «chiunque non fosse Romney». Michele Bachmann, Rick Perry, Herman Cain, Newt Gingrich, ciascuno ha avuto la sua fiammata di popolarità  e la sua settimana (o due) di gloria.
Ognuno di loro ha incarnato per un attimo fuggente il sogno della destra fondamentalista e della Fox News di Rupert Murdoch, di portare alla Casa Bianca non un anti-Obama qualsiasi ma un puro e duro, «uno dei nostri», un ayatollah del liberismo deciso a smantellare il Welfare State già  ai minimi termini. L’ultimo degli ex-favoriti, Gingrich, sta perdendo colpi in queste ore. È un po’ difficile per un vecchio politicante come lui cavalcare la rabbia populista anti-Washington. Ancora più difficile per Gingrich è presentarsi come l’anti-statalista, visto che era a libro paga da lobbyista per il colosso pubblico del credito agevolato, Freddie Mac, corresponsabile del disastro dei mutui subprime.
Il bello della polarizzazione, però, è che la campagna elettorale americana offrirà  una chiara scelta fra destra e sinistra. Una gran differenza rispetto all’Europa, dove il linguaggio dei politici è spesso una melassa indistinta, un’ammucchiata al centro. Qui in America non c’è confusione possibile. Perfino il moderato Romney, quando lo si interroga su quale sia la più grande minaccia per il suo paese, non ha esitazioni: «È lo Stato, una presenza intrusiva, soffocante». Sarà  che gli elettori hanno la memoria corta, non ricordano quanto l’iperliberismo di George Bush contribuì ad assecondare il disastro sistemico della finanza, oltre al debito pubblico esploso con due guerre. Non importa, la destra rivuole quella ricetta reaganiana che a suo tempo Bush padre definì «economia vudu»: meno tasse ai ricchi e alle multinazionali perché così la loro opulenza «sgocciola verso il basso» («trickle down»). 
Sembra una follia che questa destra voglia buttar via perfino la legge Sarbanes-Oxley che Bush jr fu costretto a varare dopo il crac della Enron, un fragile argine contro frodi di bilancio e altre maxitruffe finanziarie. Romney e gli altri tuttavia intercettano un umore profondo: nell’ultimo sondaggio Gallup il 64 per cento degli americani dice di temere il Big Government, lo spettro di uno Stato invadente e opprimente, costoso e inefficace. Sarà  schizofrenia, ma una percentuale identica dell’opinione pubblica si riconosce negli slogan di Occupy Wall Street contro l’ingordigia distruttiva dell'”un per cento”, un tema che Obama abbraccia con determinazione. La paura dello statalismo e l’indignazione per le diseguaglianze estreme si ricongiungono in un fenomeno trasversale e globale: la ripulsa verso caste privilegiate e oligarchie di ogni genere. Non è un caso se le speranze di Obama non sono tramontate: il record di sfiducia dei cittadini lo si registra non verso il presidente bensì contro il Congresso, dove la destra controlla la Camera. E se Obama accentuerà  la sua battaglia per aumentare le tasse sui ricchi, un’altra vulnerabilità  di Romney diventerà  più visibile: l’ex finanziere-avvoltoio del gruppo Bain (specializzato nell’acquistare aziende in crisi, smembrarle, licenziare e rivendere con profitto) ha rifiutato finora di pubblicare la propria dichiarazione dei redditi, evidentemente un po’ troppo opulenta.


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