La classe operaia cerca il paradiso

by Editore | 30 Dicembre 2011 8:36

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Nel 2010 quando i lavoratori della Honda di Foshan, nel Guangdong, innescarono la più grande ondata di scioperi dell’ultimo decennio in Cina, ottenendo forti aumenti salariali, The Economist inneggiò al «potere crescente» degli operai cinesi, intendendo con ciò un’accresciuta capacità  di consumo che avrebbe salvato perfino l’economia mondiale. Visione immaginifica ma angusta di un gruppo sociale che, costituito in gran parte da giovani contadini migranti, i nongmingong, ancora non è classe ma, costretto più di ogni altro a cambiare pelle nel crogiolo cinese, comincia a sviluppare una nuova consapevolezza di sé accompagnata da aspettative crescenti. La crisi che colpisce anche la seconda economia mondiale ha mutato lo scenario del 2010 ma non la determinazione di chi oggi protesta contro riduzione dei salari e licenziamenti. In questo percorso, a che punto sono gli operai cinesi?
Un quadro contraddittorio ma in movimento emerge dall’esperienza del professor Chang Kai, giuslavorista, professore all’università  Renmin di Pechino, che ha seguito dall’interno gli scioperi alla Honda. E’ lui, consulente del governo per le leggi sul lavoro, che i lavoratori della compagnia giapponese chiamarono al loro fianco nel giugno 2010 per sbloccare le trattative, giunte a una drammatica impasse dopo settimane di scioperi. Quando lo incontriamo a Pechino, all’Istituto del lavoro e delle risorse umane da lui diretto, ci tiene molto a far sapere che Li Zhiyuan, l’operaia ventenne che ebbe l’idea di chiamarlo, è stata ammessa all’università  dove affinerà  le sue armi di leader sindacale. 
Ma che ne è stato degli altri operai, dopo la vittoria? Oltre agli aumenti, i lavoratori della Honda avevano avanzato altre richieste sostanziali, tra cui quella di rappresentanti sindacali eletti. Una svolta che però sembra esserci stata. Per Chang Kai, fondamentale allora era riuscire a ottenere un buon aumento salariale e cominciare ad accrescere la voce operaia in difesa dei propri diritti. In questo senso aveva detto ai lavoratori che la prima cosa era risolvere i problemi coi laoban, i padroni. Solo dopo aver affrontato il rapporto capitale/lavoro si sarebbe potuto affrontare quello interno con l’Acftu, il sindacato ufficiale unico. Ora però ammette che dopo la vittoria è avvenuto un ripiegamento. 
Lo sciopero a oltranza, deciso perché ogni altro mezzo alternativo si era rivelato inutile, è stato il punto più alto della coscienza collettiva. Ma, osserva Chang, la coscienza operaia non è una linea progressiva, soggetta com’è a continue fluttuazioni. Risolto il primo problema, c’è stato dunque «un ritorno all’ordine». Così, se è vero che alla Honda il sindacato ha infine accettato un cambiamento delle rappresentanze interne, la cornice istituzionale entro cui si muovono i conflitti in fabbrica resta intoccabile. Scardinarla violerebbe la legge, e il professore oggi non lo auspica, anche se spera che un giorno gli operai possano organizzarsi e fondare una propria rappresentanza dal basso, perché quella attuale non li aiuta a difendere nemmeno i diritti tutelati dalle leggi. E’ nel momento in cui si costituiscono in collettività , sottolinea Chang, che i lavoratori guadagnano forza e ottengono risultati, come è avvenuto alla Honda e in tante altre fabbriche in quello straordinario 2010. 
Chang Kai nota che allora, in particolare a Foshan, vi fu un convergere di circostanze eccezionali, difficili da riprodurre: la spontaneità  e la coesione nello sciopero di tutti i 1.800 lavoratori e la loro volontà  a organizzarsi autonomamente restando tuttavia entro la legalità , come dimostra la mossa di chiamare lui a rappresentarli. Data la competenza di esperto nessuno avrebbe potuto rifiutare la richiesta, che cambiava i rapporti di forza e scalzava il sindacato ufficiale.
Il rapporto capitale/lavoro in Cina è oggi molto teso e i conflitti si inaspriscono ma, afferma il professore, gli scontri restano confinati nei reparti, con microconflittualità  diffusa e in aumento. Sarà  difficile che avvengano scioperi su grande scala come nel 2010. I governi, quello centrale ma soprattutto quelli locali, non permetteranno l’escalation.
E’ opinione diffusa che i conflitti nelle fabbriche siano destinati a crescere anche a causa della condotta del sindacato ufficiale. Lo sostiene anche Feng Yuan, 26 anni, laureato in diritto del lavoro, che dirige un portale internet per lavoratori migranti, «La città  accanto alla campagna». L’associazione, operativa dal dicembre 2009, ha sede nel monolocale di un palazzo alla periferia di Pechino dove, oltre a Feng, due ragazze e due ragazzi smanettano senza posa sui computer. Il sito, dedicato ai nongmingong, vuole essere una sorta di social network in cui i lavoratori si scambiano consigli, esperienze, sfoghi. Chi si rivolge al loro indirizzo, spiega il giovane, ha già  una certa coscienza ed è consapevole che non troverà  risposte nel sindacato. Accedono soprattutto giovani, in maggioranza uomini dai 20 ai 30 anni, migranti di seconda generazione – più sganciati dalla tradizione rurale, più istruiti, conoscono la città  ancora prima di arrivarci perché già  connessi, tramite Internet, a una comunità  più vasta.
Lo spaccato che offre il sito è quello di un’ avanguardia dalle dinamiche particolari in cui le relazioni talvolta escono dalla rete e diventano persone in carne e ossa. Affisse al vetro della finestra sono due serie di foto, lacerate a un margine e separate dal disegno di una crepa, frutto dell’attività  di tre gruppi di nongmingong che, guidati da un fotografo professionista, sono andati a riprendere la vita dei lavoratori. A sinistra si allineano vecchie immagini di oltre 30 anni fa mentre a destra c’è il presente, effetto delle riforme. La conclusione tratta dai migranti, spiega Feng, è di una frattura insanabile che ora cercano di capire. Quella di un tempo era un’identità  operaia orgogliosa, cosciente di appartenere a una classe che trainava il paese, tutelata da diritti oggi negati – allora gli operai erano chiamati gongren, e non nongmingong, contadini lavoratori. Neppure lo stato, che li scheda come agricoltori e in città  ne limita i diritti , li riconosce oggi come operai. In questo senso la lezione della storia può essere utile, pur nella consapevolezza che il passato è irrecuperabile. 
Riappropriarsi di un’identità  operaia sarebbe importante per la nuova generazione ma, dice il giovane attivista, perché ciò avvenga devono capire il senso storico di quell’abisso che li separa dal passato. Un processo che richiede una duplice spinta: dall’esterno, Ong che aiutino gli operai ad acquistare consapevolezza; dall’interno, i lavoratori stessi, che devono mutare la coscienza di sé. I tempi saranno lunghi. Per un vero rivolgimento, secondo Feng, ci vorranno almeno dieci anni. Se basteranno. Ridare ai nuovi operai la posizione sociale e i diritti che loro spettano richiederà  infatti anche un mutamento strutturale del sistema e un cambiamento profondo della società  cinese.

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