La clinica degli «invisibili»

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GOTEBORG – «La polizia non interviene a condizione che non si faccia troppo rumore. Ma noi siamo i primi a volere rimanere nell’ombra. I pazienti vivono nella paura quotidiana di essere identificati ed espulsi e non verrebbero qui a farsi visitare se non si sentissero al sicuro. E poi ci sono le frange di estrema destra, anche da quelle ci nascondiamo». Non sono le parole di un prete italiano o greco, ma di un pastore svedese che ha chiesto di restare anonimo e di non rivelare nome e luogo della parrocchia.
Un giorno alla settimana la sua chiesa si trasforma in una clinica che offre servizi sanitari a quelle persone alle quali il sempre sia lodato sistema sociale svedese non vuole riconoscere l’esistenza: gli immigrati senza permesso di residenza. Sono donne, uomini, genitori, anziani, studenti e lavoratori che per varie ragioni sono caduti nell’irregolarità . Un diniego di asilo politico, un permesso di lavoro troppo complicato da rinnovare, un ricongiungimento familiare finito male, un permesso di studi scaduto, questi alcuni dei motivi che ogni anno fanno precipitare migliaia di persone in una vita di emarginazione e miseria. Senza un permesso di soggiorno valido, la società  che prima sembrava darti tutto non ti dà  più niente. E ai suoi occhi scompari.
«Visitiamo fino a settanta pazienti in tre ore, con l’aiuto di una trentina di volontari, tra cui dottori, infermieri e tirocinanti. Usiamo i locali della sagrestia come ambulatori. Non possiamo operare, facciamo solo un primo controllo e poi ridirigiamo i pazienti verso dottori che lavorano in strutture pubbliche, ma che sappiamo essere fidati», spiega Anne Sjorgen, fondatrice di Rosengrenska, la rete di medici e infermieri che gestisce la clinica. 
In Svezia la distinzione tra immigrato regolare e irregolare è molto più marcata che nel sud Europa. Qui o sei dentro al sistema o non esisti. Tanto è vero che nei testi di legge si parla solo di richiedenti asilo che hanno ricevuto il diniego e non di immigrati irregolari in generale. Il sistema è il paradiso, la clandestinità  il purgatorio. Sempre che non ti capiti nulla di grave, se no è l’inferno. I livelli di accesso alle cure sanitarie e alla giustizia per immigrati irregolari sono i più bassi d’Europa. Quelli che si assumono il rischio di chiedere aiuto, quando non sono segnalati alla polizia, devono pagare per tutte le cure che ricevono, anche per quelle d’assistenza alla gravidanza e d’emergenza. Come negli Stati Uniti, se stai morendo, l’ambulanza ti viene a prendere, ma poi ti presentano il conto a fine corsa. 
Una donna priva di permesso di soggiorno e vittima di violenza è esclusa dalle case-rifugio pubbliche, non può andare a denunciare l’abuso alla polizia e non può andare all’ospedale per paura di essere espulsa. Per questo Fawzia è caduta vittima due volte. «Mio marito era in Afghanistan e io ero qui con la sua famiglia. Suo fratello abusava di me e mi picchiava. Quando ho osato dirlo a mia suocera tutta la famiglia si è rivoltata contro di me. Una sera mi hanno preso a schiaffi talmente forte che sono scappata di casa mezza svestita e sanguinante. In quel momento era come essere in Afghanistan. Non potevo andare da nessuna parte per chiedere aiuto e ho dovuto fidarmi dell’unico sconosciuto che si è fermato a chiedere come stavo. Il tempo di rimettermi e anche lui ha cominciato ad abusare di me. Mi ha messo incinta. La famiglia di mio marito continuava a cercarmi. Ero braccata e disperata. Grazie a Dio poi ho incontrato Anne di Rosengrenska». 
Abdulrarak Moustafa, giornalista dissidente siriano, è arrivato in Svezia dieci anni fa per raggiungere suo figlio a cui era stato riconosciuto lo statuto di rifugiato. Lui non ha avuto la stessa fortuna con la domanda d’asilo ed è diventato irregolare, nonostante nel suo paese d’origine avesse passato sei mesi in prigione e gli fosse stato vietato di esercitare la sua professione. «In dieci anni sono invecchiato di trenta. Non posso lavorare. Vivo nella paura di essere rimandato in Siria. Ho il diabete, la pressione alta e il mal di denti e per curarmi posso venire solo qui, che è aperto solo un giorno alla settimana per qualche ora. Non ho scelta. Ho 63 anni. La mia vita è con la mia famiglia in Svezia. In patria non oso pensare cosa mi potrebbe fare».
«La maggioranza delle malattie sono psicosomatiche. Digrignano i denti nel sonno come riverbero della tensione che vivono quotidianamente. Per questo gli faccio portare degli apparecchi dentari contro la deformazione. Non sto parlando di malattie post-traumatiche, dovute alle guerre che si lasciano alle spalle, ma di patologie che nascono qui, dal momento in cui perdono i documenti. Vivono nella paura di essere identificati. Diventano sospettosi di tutto e ciò li fa vivere nell’ombra», spiega la dentista. 
Ulla, infermiera in pensione, ripercorre in breve la storia di Rosengrenska: «Abbiamo aperto nel 2004. Al tempo avevamo un solo dottore per pochi pazienti. Ed eravamo ancora più nascosti. Oggi l’ipocrisia si è allargata. Le autorità  sanno del nostro lavoro e ci lasciano fare. Ma la paura è aumentata da quando l’estrema destra è entrata in parlamento due anni fa. Quest’anno contiamo sette psicologi, quattro dottori generalisti, due dentisti, un oculista, un fisioterapista, quattro infermiere, tanti studenti tirocinanti e una decina di traduttori. Anche il numero di pazienti è aumentato e non ci bastano le stanze».
«La nostra clinica non dovrebbe esistere. Tutte le persone dovrebbero avere accesso alle cure negli ospedali pubblici come avviene in altri paesi d’Europa. È un paradosso che la Svezia sia vista come un porta bandiera dei diritti umani nel mondo e non rispetti il diritto internazionale a casa sua. Le convenzioni Onu parlano di diritto alla salute proprio come diritto umano per tutti, a prescindere dallo statuto giuridico della persona. Il testo di legge del 2008 prevedeva addirittura una proibizione formale a fornire cure sanitarie agli immigrati irregolari. La reazione della società  civile è riuscita a farla tagliare dal testo, ma rimane che nessun servizio è gratuito», commenta Anne Sjorgen. 
Negli altri paesi dell’Unione Europea la situazione è migliore che in Svezia, ma sono solo quattro quelli che garantiscono un accesso agli immigrati irregolari più o meno equiparabile al resto della popolazione: la Spagna, l’Italia, la Francia e il Belgio. Questi paesi hanno legislazioni in conformità  con il diritto internazionale, ma i problemi sorgono nell’applicazione della legge. In Italia, essendo la sanità  amministrata a livello regionale, il panorama è vario. Escludendo la Lombardia (maglia nera), nella maggioranza delle regioni la legge è applicata, ma persistono ostacoli pratici quali burocrazia, poca informazione e discriminazione. Senza contare il sempre presente fattore paura. Agli inizi del 2009, la discussione dell’emendamento della Lega Nord contro il divieto ai medici di denunciare i pazienti senza permesso di soggiorno, poi ritirato, ebbe come conseguenza non solo di allontanare gli immigrati irregolari dagli ospedali (le associazioni denunciano gli echi ancora oggi), ma anche di creare pericolose e incontrollate reti informali di assistenza sanitaria.


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