La «squadretta» delle punizioni che seviziava i detenuti

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ROMA — Umiliazioni, percosse, violenza, sevizie: nella «squadretta», come la chiamavano a Regina Coeli, militavano almeno in sei. Non solo guardie carcerarie ma anche personale sanitario. Fra cui il medico del reparto della settima sezione, Rolando Degli Angioli, per il quale il pm Francesco Scavo ha chiesto il rinvio a giudizio per abuso, falso e violenza privata. E infermieri come Luigi Di Paolo, ora accusato di violenza privata.
Contro di loro, militanti di una sorta di «codice rosso» in vigore dietro le sbarre, ci sono le testimonianze delle stesse vittime. «Mi tenevano in piedi per non farmi dormire — racconta ai magistrati Oltean Gavrila, uno dei romeni accusati dello stupro di gruppo della Caffarella, il 14 febbraio del 2009 e finito nel carcere di Regina Coeli e vittima della “squadretta” —. Arrivavano da me alle undici di sera e mi dicevano di stare in piedi, non dormire, poi dopo un po’ mi dicevano “puoi dormire venti minuti” e in venti minuti non ce la facevo…». Per sottrarsi a un supplizio durato giorni, Gavrila si attacca a una bottiglia di detersivo e il 19 febbraio viene trasferito in infermeria. Da qui chiede di parlare con un magistrato al quale racconta tutto. Si tratta di Vincenzo Barba, uno dei pm del caso Cucchi.
Anche in quell’occasione, Degli Angioli, medico con una predilezione per la professione di agente carcerario (nel suo armadietto era custodita una giacca della divisa penitenziaria) era presente. Ma allora, sarebbe intervenuto solo per consigliare il ricovero in ospedale di Cucchi, già  con lividi e fisicamente compromesso.
Sono serviti due anni di indagini per rompere l’involucro omertoso del penitenziario e ricostruire, almeno in parte, quello che accadeva da anni. La «squadretta» entrava in gioco con detenuti accusati di delitti sessuali o reati particolarmente allarmanti sul piano sociale. Spesso contro immigrati o comunque stranieri. Meglio ancora se con patologie invalidanti che rendevano ancora meno credibile la loro (già  improbabile) denuncia.
Sarà  Julien Monnet la vittima «illustre» che farà  scattare le indagini. L’ingegnere francese di 37 anni, accusato di tentato omicidio nei confronti della figlia (le avrebbe sbattuto la testa sui gradini dell’Altare della Patria: era l’agosto 2008) subì il «trattamento». Ma Monnet non è un extracomunitario qualunque. Il suo caso fu seguito, giorno per giorno, dall’ambasciata di palazzo Farnese. Dunque l’uomo denuncia e in procura, spiega il suo difensore Michele Gentiloni Silveri, viene aperto un fascicolo.
Legato a un letto di contenzione (ce n’è uno nella settima sezione, utilizzato in caso di crisi suicide o raptus omicida del detenuto) «con della stoffa marrone» Monnet racconta: «A un certo punto, la persona con il camice bianco che mi stava schiaffeggiando in viso… si è spostato alla mia destra…». Nel frattempo una seconda persona «continuava a picchiarmi sui piedi» con un grosso bastone. Monnet spiega che, a un tratto, uno dei due prende un tubo: «E approfittando che ero legato ha cominciato a inserirmi un catetere. Questa operazione si è conclusa dopo almeno quattro tentativi, durante i quali io urlavo per il dolore a ogni tentativo fallito. Ricordo perfettamente che tutti e due erano incuranti del dolore che mi stavano provocando, il primo per il modo in cui tentava di inserirmi il tubo, l’altro perché ad ogni grido riprendeva a picchiarmi sui piedi».
Monnet denuncerà  la tortura subita, mentre della «sonda vescicale» che gli venne applicata è scomparsa ogni traccia dal registro degli interventi effettuati quel giorno. Resta la domanda: qualcuno controlla quei registri?
È in seguito alla denuncia di Monnet che si apre anche l’inchiesta interna della polizia penitenziaria, al termine della quale vengono presi provvedimenti disciplinari nei confronti di Degli Angioli. Il medico viene allontanato. Ma il francese non è solo. La squadra punitiva prende di mira anche un giovane filippino B. R., arrestato con in corpo tanto shaboo (allucinogeno) da dover richiedere l’intervento di una decina di agenti per placarlo. Su di lui si sbizzarriscono fino a incaprettarlo e a spegnergli sigarette accese sul corpo. E A. R., omosessuale, con patologie psichiatriche gravemente invalidanti, arrestato per violenza sessuale, racconta: «Per farmi desistere dal desiderio di avere rapporti mi facevano camminare lungo il corridoio della sezione in maniera da essere veduto da tutti mentre ripetevo ad alta voce “sono scemo, sono scemo”». Per intimidirlo si svolgevano anche «rappresentazioni di pericolo» nei confronti della sua famiglia, racconta A. R. Una sorta di perverso gioco dei mimi nel quale si allude a ritorsioni a donne «della mia famiglia, mia madre, mia zia, mia cognata». Minacce che si sarebbero realizzate in caso di denuncia.


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