La rabbia della grande rete contro il “partito dei ladri”. Così è nata l’ultima rivolta

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Come al Cairo, i loro eroi sono giovani blogger. Come al Cairo, riuniscono correnti diversissime e perfino opposte, nazionalisti e liberali, oppositori democratici e neofiti della politica che non sarebbero mai scesi in piazza se non fossero stati esasperati dalla miseria e dalla corruzione.
E così come i manifestanti di piazza Tahrir si ispiravano alla rivolta tunisina, quelli di Mosca fanno riferimento alle rivolte arabe, che per loro sono la dimostrazione che una collera popolare può avere ragione di una dittatura.
Non c’è bisogno di aspettare gli storici per dire che l’anno 2011 passerà  agli annali come l’anno del contagio democratico, ma perché questo contagio ha toccato anche Mosca, dopo undici anni di putinismo, undici anni durante i quali nessuna forma di opposizione era riuscita ad affermarsi?
La risposta è che Vladimir Putin ha commesso due errori, uno nel 2008 e l’altro la settimana scorsa, due errori a cui non gli sarà  facile porre rimedio. Tre anni fa, per cominciare, aveva dovuto fare una scelta difficile. La Costituzione gli proibiva di presentarsi per un terzo mandato consecutivo e dunque aveva bisogno di trovare qualcuno che gli scaldasse la sedia fino al 2012, ma chi? Un militare? Ci aveva pensato, ma non avrebbe fatto un bell’effetto. Un agente dei servizi segreti, come lui? Sarebbe stata la cosa più semplice, ma a parte il fatto che gli ambienti imprenditoriali non erano favorevoli perché temevano un potere ancora più arbitrario di quanto già  non fosse, Vladimir Putin non voleva che un altro se stesso potesse prendere gusto al potere.
Dopo lunghe esitazioni, la sua scelta era caduta quindi su uno sconosciuto che doveva a lui la sua carriera, Dmitri Medvedev, troppo giovane e troppo sprovvisto di appoggi, pensava Putin, per potergli fare ombra. La Russia intera aveva pensato la stessa cosa. «Sarà  solo una marionetta», dicevano all’epoca i russi, ma al pari di Vladimir Putin avevano dimenticato che questo nuovo presidente timido e paffuto era arrivato all’età  adulta dopo la fine del regime sovietico, che era un giurista e non un poliziotto, e che la cosa che amava di più era leggere su Internet il Financial Times.
Discorso dopo discorso, Dmitri Medvedev ha cominciato a denunciare l’arretratezza politica della Russia, la corruzione e l’imperizia generale, e soprattutto a spingere per un riavvicinamento con l’Europa e con gli Stati Uniti, che appartengono, diceva, alla nostra «stessa civiltà ». Era quello che pensavano e volevano sentire i ceti imprenditoriali e le nuovi classi medie. La marionetta ben presto ha finito per risvegliare il loro interesse. Dmitri Medvedev è diventato popolare, talmente popolare che ha cominciato a pensare di mandare all’aria i piani del suo mentore e presentarsi per un nuovo mandato.
L’ipotesi di una candidatura di Medvedev era diventata talmente plausibile che Vladimir Putin si era visto costretto a entrare in campo e fischiare la fine della partita. È stato lo stesso Dmitri Medvedev che ha dovuto annunciare, a settembre, che il candidato sarebbe stato Putin e che lui avrebbe preso il posto dell’ex presidente come capo del governo. Ai vertici del potere la questione era chiusa, ma questa pagliacciata ha suscitato un’indignazione tale nel Paese che la popolarità  di Putin e del suo partito sono precipitate nei sondaggi; ed è qui che è intervenuto il secondo errore di quest’uomo forte che la forza acceca.
Ossessionato – perché è così – dallo spettro della primavera araba, si è detto, la settimana scorsa, che il solo modo per evitare che le elezioni legislative scatenassero troppe proteste era fare un piccolo passo indietro, accettare di limitarsi a brogli parziali, lasciare che il voto rispecchiasse l’evoluzione della pubblica opinione.
È stata la manovra di troppo. Invece di calmare le acque, quei 15 punti di arretramento emersi domenica hanno rinvigorito la contestazione contro il «partito dei truffatori e dei ladri». Organizzate su Internet, le manifestazioni sono state applaudite dalla gente sui marciapiedi, e dei passanti si sono uniti alla protesta: oggi scopriamo l’altra Russia, quei giovani, quei blogger e quei ceti medi che si nutrono di Internet, che aspirano alle libertà  e a uno Stato di diritto, che non ne possono più della corruzione e sognano di ricostruire il loro Paese su basi nuove.
La Russia non è l’Egitto. Vladimir Putin non farà  la fine di Mubarak, ma in primavera, quando si terranno le presidenziali, farà  molta fatica a far credere alla legittimità  della sua elezione futura. In Russia la situazione è cambiata. È cambiata all’improvviso e a tal punto che Mikhail Gorbaciov è arrivato a chiedere «l’annullamento» di queste elezioni di cui, parallelamente, l’Occidente denuncia l’irregolarità . Il Paese reale prevale sul Paese legale. La Russia di Internet ruba la scena alla Russia delle televisioni di Stato. La censura è aggirata e ora sono gli altri ad avere paura. Si apre una pagina nuova per questo Paese, una pagina difficile, irreversibile, lunga e incerta quanto la primavera araba.
(Traduzione di Fabio Galimberti)


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