Le maniche corte di una bimba agitano Israele
Non c’era riuscita dieci giorni fa nemmeno la 28enne Tanya Rosenblit, subito soprannominata la Rosa Parks israeliana e promossa a paladina dei diritti civili per aver rifiutato di sedersi in fondo a un autobus «mehadrin», quelli dove tuttora gli uomini viaggiano seduti nella metà anteriore e le donne in quella posteriore. Sebbene il 6 gennaio scorso l’Alta Corte israeliana abbia stabilito che la segregazione è illegale, dando un anno di tempo alle società di trasporti per mescolare i passeggeri.
Il posto delle donne, non solamente sui mezzi pubblici, ma nella società israeliana più tradizionale e osservante, è una questione ricorrente e non troppo stuzzicata dal governo conservatore di Benjamin Netanyahu, che, però, domenica scorsa non ha potuto ignorare l’ondata di polemiche sollevata dalla questione: può l’abbigliamento di una bambina di nemmeno 8 anni rappresentare un oltraggio al pudore?
Può, come ha documentato un servizio del secondo canale televisivo israeliano nella cittadina di Beit Shemesh, 80 mila anime, delle quali il 35% rigorosamente ortodosse, a nord ovest di Gerusalemme. Può, come ha urlato nel microfono dell’esterrefatto reporter, un automobilista sinceramente convinto che sia giusto e addirittura «sano» punire una femmina abbigliata in modo «immodesto», a 7 come a 70 anni. E Na’ama era stata punita con sputi, spintoni, insulti e qualche sassata, lungo il tragitto di 300 metri fra casa e scuola. Scuola religiosa, fra l’altro, come la famiglia di immigrati americani in cui è nata, come il guardaroba materno e come il suo, che in Europa sarebbe molto probabilmente giudicato da educanda.
Una maglietta dalle maniche troppo corte, una gonna colorata che non ha coperto a sufficienza le ginocchia, un errore nello scegliere il marciapiede (la strada principale di Beit Shemesh è riservata su un lato agli uomini e sull’altro alle donne), hanno trasformato una scolaretta in una provocante «scostumata», agli occhi di alcuni zeloti, che hanno deciso di rimetterla al suo posto. Tanto che Na’ama ora non vuole più tornare a scuola, nemmeno scortata dalla mamma.
Netanyahu ha alzato la voce, domenica: «Israele è uno Stato democratico, occidentale e liberale. La sfera pubblica è aperta e sicura per tutti, uomini e donne. Non c’è spazio per persecuzioni o discriminazioni». Il ministro dell’Interno, Eli Yishai, a una riunione del suo partito, Shas, il partito dei religiosi ultraortodossi, si è dichiarato «nauseato e disgustato»: «Aggredire una bambina è un atto contrario alla Torah» ha stabilito. Senza poter impedire che ieri, a Beit Shemesh, fossero accolti con lanci di pietre anche i poliziotti inviati a togliere la segnaletica stradale discriminatoria.
Per l’amministrazione israeliana, già provata dallo scandalo di un presidente, Moshe Katsav, costretto alle dimissioni e condannato a 7 anni per violenza sessuale, le barricate misogine degli integralisti sono la risposta meno appropriata ai dubbi di Hillary Clinton. Inquietata dalle direttive dei rabbini più estremisti, che aborriscono perfino il canto femminile nelle cerimonie militari, il segretario di Stato americano aveva commentato: «Sembra di stare a Teheran». Ma le sue parole non avevano fatto breccia quanto le lacrime di Na’ama.
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