Le protesi nocive al seno In Italia decine di rotture

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ROMA — L’allarme correva pericolosamente sotto traccia. E ora assume contorni ben definiti dopo gli ultimi provvedimenti dei governi francese e britannico, i primi a intervenire. Alle donne con protesi mammarie Pip (Poly implants prothesis), sospettate di essere cancerogene e causa di infiammazioni, ritirate nel 2010, è stato raccomandato di effettuare controlli dopo la segnalazione di rotture. L’Italia ha seguito l’esempio dei vicini europei. Anche da noi sono stati comunicati «scoppi», 24 dal 2005 allo scorso anno. Sotto accusa solo le protesi Pip, 400 mila pezzi venduti nel mondo. La vicenda però coinvolge indirettamente l’intero mercato dell’estetica. Pensiamo al giro incontrollato dei filler antirughe che circolano liberamente.
La strategia italiana è indicata nel parere del Consiglio superiore di sanità  presentato ieri dal ministro della Salute, Renato Balduzzi: «Non esistono prove di maggior rischio di cancerogenicità  ma sono state evidenziate maggiori probabilità  di rottura e reazioni infiammatorie». Le donne dovranno discutere la situazione col chirurgo che le ha operate, ai centri viene chiesto di collaborare contattando le pazienti operate al seno con quel silicone. Balduzzi ha annunciato che gli eventuali reimpianti verranno rimborsati dal servizio pubblico, purché ci siano indicazioni specifiche. Saranno valutati solo i casi di mastoplastica legati a problemi di salute, dunque ricostruzioni per carcinoma alla mammella. 
La stima è che in Italia circa 4.000-4.300 donne abbiano ricevuto queste «aggiunte» scadenti in silicone nel proprio corpo. Un numero ipotetico. Le cliniche non hanno l’obbligo di segnalare gli impianti, il decreto che prevedeva il registro delle protesi, iniziativa dell’ex sottosegretario Francesca Martini, non è mai decollato. Bloccato al Senato per intoppi di privacy e finanziamento. 
«Il parere conferma la linea di allarme — ha detto Balduzzi —. Le protesi Pip sono in materiale non regolare. Siamo in contatto con le autorità  francesi dove il problema è più grave perché interessa circa 30 mila pazienti. Il lavoro del Consiglio superiore era già  cominciato. Nell’aprile del 2010, dopo le prime segnalazioni francesi, in Italia è scattato il ritiro. Poi una seconda circolare che disponeva un sistema di monitoraggio anche con i medici di famiglia». 
L’azienda Pip è fallita. Utilizzava materiale di bassa qualità  dichiarando invece un contenuto diverso. Le protesi costavano la metà  rispetto a quelle sicure. Il prodotto aveva bollino Ce che però non è contrassegno di garanzia. Le aziende per averlo pagano agenzie certificate che valutano la conformità  regolatoria. Nei singoli Paesi, a differenza dei farmaci sottoposti a disciplina stringente, non è previsto nessun controllo come per tutti gli altri dispositivi medici. Dunque il silicone fallato ha liberamente circolato dal 2001, anno di commercializzazione, ad aprile 2010, data del ritiro in Francia, Gran Bretagna e Italia.
Pietro Lorenzetti, chirurgo plastico con attività  a Roma, Catania e Milano, non fa giri di parole: «I fabbricanti seri sono due o tre. Noi medici li conosciamo e sappiamo che gli altri prodotti sono scadenti. Dopo qualche anno dall’impianto trasudano».
L’Associazione italiana di chirurgia plastica estetica (Aicpe) chiede al ministero «una risposta urgente per prevenire panico ingiustificato». E’ probabile che le protesi low cost siano state acquistate anche da ospedali e case di cura convenzionate e siano servite per la ricostruzione di donne operate di cancro al seno. Non risulta sia mai stata avviata un’indagine specifica. Andrea Grisotti, chirurgo della San Pio X di Milano, avverte: «Sulla cartella clinica deve essere riportata l’etichetta del dispositivo applicato».


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