L’evoluzione delle lingue. Erano 500 mila Ne resterà  una soltanto

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Nella millenaria lotta per sopravvivere alla fine ne rimarrà  una soltanto. «Un unico mondo con un’unica lingua». Dunque il giorno della Torre di Babele, dopo una corsa che dura da ormai 200 mila anni, si avvicina, mentre l’infinito fiume degli incroci sonori tende a restringersi di giorno in giorno per arrivare a un unico codice condiviso. Un metalinguaggio super-resistente uscito vincitore dalla selezione naturale. L’inglese per tutti? «Possibile».
Il professor Mark Pagel, biologo dell’evoluzione all’Università  di Reading, è un uomo abituato ad applicare modelli statistici alle teorie evolutive e ha appena pubblicato un nuovo testo in cui ripercorre il complicato cammino delle lingue attraverso la storia. Nel corso dei secoli ne sono esistite almeno 500 mila, ma solo seimilanovecentonove sono state più forti del tempo. Venti sono quelle parlate in più del 95% del pianeta, le altre vengono utilizzate da tribù di poche migliaia di persone.
Il caso più sorprendente è quello della Nuova Guinea, dove si usano oltre 800 codici differenti. Uno ogni due chilometri. «Una volta mi è capitato di chiedere a un abitante se fosse davvero possibile. Lui mi ha risposto convinto: no, non è possibile, per quello che ne so io ci sono dialetti differenti anche a meno di un chilometro di distanza uno dall’altro». Pagel e il suo gruppo di studio hanno verificato. L’indigeno non mentiva.
Secondo gli scienziati del linguaggio esistono diversi elementi che determinano la resitenza di un codice vocale o la sua morte. Il primo è il senso identitario di chi lo utilizza. «La lingua, paradossalmente, viene usata come strumento non per comunicare, ma per escludere. È stato così a lungo
e in certe zone del pianeta le cose non sono cambiate. I gruppi che erano in grado di procurarsi cibo da soli tendevano a stare tra di loro. La lingua stabiliva un confine chiaro e in qualche modo impediva lo sviluppo. Ovvio che la globalizzazione ha fatto saltare i parametri e precipitare il numero dei linguaggi».
Un altro fattore importante è il clima. Chi vive al caldo sviluppa la tendenza a parlare a voce più alta e a utilizzare un maggior numero di vocali. Gli italiani, per esempio. «Un atteggiamento che è figlio della necessità  di comunicare in mezzo alla strada, oppure da una porta all’altra. E le vocali hanno una capacità  di penetrazione maggiore. Nei Paesi freddi si tende a stare al chiuso e questo condiziona anche la lingua», scrive Robert Munroe, antropologo del Pitzer College, in California, sulla rivista «New Scientist».
Non esiste un meccanismo di comunicazione migliore di un altro. «Tutte le lingue hanno la stessa dignità . E se sono vive o morte dipende da motivi che non hanno niente a che vedere con la loro qualità ». Il colonialismo, le contaminazioni, il commercio. Secondo Pagel fino ad oggi non è esistito nessun linguaggio più fortunato dell’inglese. «È solo il quarto come penetrazione, dopo il mandarino, l’hindi e lo spagnolo, eppure è stato adottato un po’ovunque».
L’ipotesi di un suo utilizzo universale è probabile. Sarà  un bel giorno quello? Dipende. Nell’isola di Vanuatu, nel Pacifico, gli indigeni hanno un’espressione che suona vagamente britannica. Dice: «Nambawan bigfala emi blong Misis Kwin». Significa: «È il grande amico numero uno. E appartiene alla Regina». Pagel quasi si commuove. «C’è un modo migliore per descrivere il Principe Filippo? ». Forse no. Ma presto non esisterà  più.


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