Libia: il CNT annuncia la smilitarizzazione, ma i problemi rimangono

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Ci sono città  come Bengasi e Tripoli che hanno lentamente ripreso a vivere nella normalità  anche se a Tripoli sono ancora presenti varie milizie armate e fuori controllo. Mercoledì scorso, infatti, oltre 200 tra avvocati e giudici hanno manifestato a Tripoli protestando contro la presenza delle milizie nella capitale. Il corteo si è celebrato all’indomani dell’irruzione di un gruppo armato di ribelli nella sede della procura generale. “Il governo della capitale ha dato tempo fino al 20 dicembre alle milizie perché lascino Tripoli” ha dichiarato l’ufficio del primo ministro Abdel Rahim al-Kib. “Certo è che ogni milizia non rinuncerà  alle armi fino a quando non avrà  garanzie in cambio […] e fino a questo momento ci si spara di notte tra milizie che occupano Tripoli, provocando anche morti, feriti e terrore tra la popolazione” ha raccontato a Radio Vaticana il giornalista free-lance Cristiano Tinazzi appena rientrato dalla Libia.

Una situazione non proprio tranquilla, ma certamente migliore rispetto ad altre zone del Paese come Sirte e Bani Walid che sono ancora completamente lasciate in mano a loro stesse. “Non c’è ancora possibilità  di comunicare, le infrastrutture sono distrutte e ultimamente ci sono anche stati agguati alle forze rivoluzionarie, quelle del nuovo governo e una serie di vendette che non si placano soprattutto nella zona tribale di Bani Walid” ha precisato Tinazzi.

Una strada in salita quindi, quella della Libia democratica, ma nel contempo non priva di speranza. Per Tinazzi, infatti, “Tripoli ha un’amministrazione civile, ci sono volontari che reggono il Tripoli local council che non vogliono le armi in città , che vogliono ristabilire l’ordine, vogliono la polizia locale e stanno chiedendo in tutti i modi la formazione di un esercito nazionale”. Inoltre “C’è da parte di una minoranza, una minoranza attiva, giovane, che viene dall’estero e che fa parte della diaspora libica, la volontà  di creare uno Stato moderno, magari su un’impronta di tipo europeo, che vuole cambiare le cose. Dall’altra parte però ci sono situazioni che ancora non sono chiare: i berberi, per esempio, sono stati esclusi dal nuovo governo e sono sempre in piazza a Tripoli per chiedere i loro diritti perché si ritengono discriminati come all’epoca di Gheddafi”.

Quello dei berberi, non è l’unico problema “etnico” della Libia. Dall’entrata dei ribelli a Tripoli sono stati decine gli appelli delle ong per denunciare le violenze dei miliziani verso “Centinaia di cittadini stranieri, in massima parte tuareg originari del Mali o del Niger, che vengono detenuti e torturati dalle nuove autorità  libiche”. Lo ha affermato l’ong Defense-Etrangers en Lybie (Del), creata nel febbraio scorso da alcune associazioni di maliani e nigerini. Il “solo torto” di questi cittadini stranieri è “l’essere considerati come sostenitori di Muammar Gheddafi”, ha spiegato Ousmane Ag Ahmed il segretario generale dell’ong in un comunicato, nel quale si chiede al Consiglio Nazionale di Transizione libico di porre fine alle violenze e agli abusi e di rispondere alle accuse secondo le quali decine di persone sarebbero state uccise dalle milizie e seppellite in fosse comuni.

Amnesty International e Human Rights Watch hanno, inoltre, documentato numerosi casi di maltrattamenti su prigionieri, in particolare sui libici con la pelle scura e sugli africani sub-sahariani, molti dei quali sono stati picchiati e torturati con scariche elettriche. “Sono state riscontrate evidenti prove dell’uso della tortura per estorcere confessioni o per punire i detenuti – aveva dichiarato Amnesty International ancora in ottobre – occorre ora invitare le nuove autorità  libiche a porre fine alle detenzioni arbitrarie e ai diffusi abusi ai danni dei detenuti”.
 
Il rischio è che, senza un’azione ferma e immediata, il passato possa ripetersi. “Gli arresti arbitrari e la tortura erano una costante del regime del colonnello Gheddafi – ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice per l’Africa del Nord e il Medio Oriente di Amnesty International – siamo consapevoli delle molte sfide che le autorità  di transizione stanno affrontando, ma se non si spezzano i legami col passato in questo momento, daranno il segnale che nella nuova Libia trattare i detenuti in questo modo sarà  tollerato”.

Sull’argomento Amnesty International ha recentemente sollecitato la International Criminal Court (Icc) a porre fine alla confusione sulla sede in cui Saif al-Islam Gheddafi (uno dei figli del Rais), attualmente detenuto in un luogo segreto nella città  di Zintan, dovrebbe essere processato.

Il 23 novembre il procuratore della Corte, Luis Moreno Ocampo, ha detto che non è necessario che il figlio dell’ex leader libico Muhammar Gheddafi sia processato dall’Icc, ma potrebbe essere giudicato nel suo paese da una corte libica. La risposta di Amnesty non si è fatta attendere:
 “Nutriamo molti dubbi su come, attualmente, il sistema giudiziario libico possa garantire un processo equo e senza pena di morte nei confronti di Saif al-Islam Gheddafi. L’Icc non dovrebbe attendere che siano le autorità  libiche a decidere, ma dovrebbe intervenire per fare in modo che vi sia giustizia”. Secondo lo Statuto di Roma dell’Icc, spetta alla Corte stabilire se le autorità  libiche sono in grado o meno di dare giustizia alle vittime delle violazioni dei diritti umani. 
”Se i giudici dell’Icc decideranno che sarà  la Corte a processare Saif al-Islam Gheddafi, Amnesty International chiederà  che l’Icc svolga le procedure giudiziarie in Libia assicurando l’incolumità  di Saif al-Islam Gheddafi e la protezione degli altri suoi diritti, così come di quelli di Abdullah al-Senussi, ex capo dell’intelligence della Libia e a sua volta ricercato dall’Icc, che si teme sia detenuto in isolamento” ha dichiarato Marek Marczynski, della Campagna per la giustizia internazionale di Amnesty International.

Sfide importanti e che anche per Paolo Sensini, saggista e scrittore, autore del recente libro “Libia 2011”, edito da JacaBook non trovano certo una Libia pronta ad affrontarle. “Ciò che finora con la guerra i libici hanno guadagnato – ha osservato Sensini presentando il testo che ha la prefazione di Monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli – è di essere passati bruscamente dal paese con le migliori condizioni di vita dell’Africa e non solo, a un paese sull’orlo di una crisi umanitaria. Allo stato attuale, il risultato che la Libia può mettere sul piatto della bilancia dopo circa otto mesi di guerra Nato-ribelli è il seguente: infrastrutture urbanistiche e industriali ridotte all’età  della pietra, cinquantamila tonnellate di bombe ad alto contenuto esplosivo (gran parte delle quali all’uranio impoverito) lanciate sul suolo libico, oltre centomila morti e decine di migliaia di mutilati. Se questo è il prezzo della prima fase di esportazione della democrazia, è difficile immaginare, o forse è fin troppo facile, quale sarà  il conto finale” sul quale, purtroppo, ha scommesso anche al-Qaeda. Come ampiamente documentato nel libro di Sensini, infatti, tra le fazioni libiche, la componente preponderante è quella legata ad al-Qaeda e all’islamismo fondamentalista capace di cavalcare il malcontento. “A Bengasi, qualche giorno fa – ha concluso Sensini – sul palazzo di Giustizia, campeggiava la bandiera di al-Qaeda. Jalil, presidente del Cnt, lo ha dichiarato: tutte le leggi che verranno promulgate non dovranno essere in contraddizione con la Sharia, con tutto quello che questo comporta”. Al momento un passo decisamente contraddittorio per un Paese nel quale si è intervenuti per portare la democrazia.


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