Londra, il più grande sciopero dagli anni 70

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LONDRA — Diciannovemila scuole chiuse o parzialmente funzionanti su un totale di 21.700. Bloccati o rallentati i servizi sanitari. Ritardi alle frontiere e disagi negli aeroporti. Due milioni di lavoratori del pubblico impiego hanno incrociato le braccia e manifestato per protestare contro la riforma delle pensioni statali proposta dal governo (maggiori versamenti del 3 per cento e assegno mensile calcolato sulla media retributiva nell’intera carriera lavorativa, non più sulle ultime buste paga). Immagini d’altri tempi per il Regno Unito.
«Non voglio vedere il Paese in ginocchio a causa di una minoranza», aveva detto il premier David Cameron. «Portate i vostri bambini nelle aule e organizzate attività  alternative», aveva insistito il ministro della Educazione. «Esercito e polizia sostituiranno il personale delle dogane», si era premurato a sottolineare il ministro dell’Interno. Persino i laburisti di Ed Miliband avevano suggerito di rinviare l’agitazione. E giornali solitamente schierati a sinistra, come l’Independent, avevano scritto: «Sciopero sbagliato nel momento sbagliato».
Non importa. I sindacati hanno sfidato tutti e tutto. Downing Street ha bollato la giornata come «un mezzo fiasco». Ma al di là  delle solite guerre di numeri la realtà  suggerisce una considerazione: l’adesione è stata notevole, la maggiore dall’inverno del malcontento (era il 1979). Lo dimostrano i cortei nelle maggiori città  che hanno raccolto migliaia di partecipanti.
I dipendenti pubblici sono sul piede di guerra per i tagli alla spesa. Il ceto medio soffre per il ridimensionamento del welfare. La produzione industriale cala. Le imprese galleggiano a fatica. Le ultime statistiche consegnate dal cancelliere George Osborne ai Comuni nella revisione dei conti pubblici sono impietose.
Il governo è costretto a rivedere al ribasso le stime illustrate nel marzo scorso: il prodotto interno lordo avrà , se l’avrà , una risalita insignificante nel 2012 (più 0,7 per cento, rispetto al 2,1 che era stato messo in conto), il deficit si allargherà  (8,7 per cento del pil) e crescerà  il debito pubblico (97,2 per cento sempre del pil). La disoccupazione oggi all’8,1 per cento diventerà  dell’8,7 fra dodici mesi (2,8 milioni di uomini e di donne). Si dovrà  reperire ossigeno finanziario sui mercati (111 miliardi di sterline da qui al 2016, oltre il programmato).
Il titolo a piena pagina del Daily Telegraph, quotidiano amico dei conservatori, riassume la tempesta: «Sei anni in più di dolori». Allungando la visuale fino al 2016, le previsioni inducono il Tesoro britannico a stringere ulteriormente i cordoni.
Tutto ciò significa ritoccare i tagli già  operativi alla spesa: occorrerà  risparmiare 15 miliardi sterline in più. Come? Confermato che le retribuzioni del settore pubblico resteranno congelate fino al 2013, nel biennio successivo potranno essere rivalutate appena dell’1 per cento. Dal 2026 si andrà  in pensione a 67 anni. I crediti d’imposta per le famiglie saranno frenati. Lacrime e sangue. Più di prima. Molto più di prima.
È il ciclo economico peggiore dal dopoguerra a oggi. Per uscirne non sono sufficienti i risparmi, serve pensare a misure utili a fare ripartire il motore della crescita: il governo confida in 500 progetti infrastrutturali (strade, autostrade, ferrovie) per 5 miliardi di sterline extra, in finanziamenti (40 miliardi di sterline) a basso interesse per la piccola e media impresa e in un fondo di 400 milioni di sterline destinato all’edilizia residenziale.
Che siano sufficienti nessuno lo scommette. Il Financial Times suggerisce a Downing Street di usare l’accetta sulla spesa corrente e di dirottare le risorse risparmiate a favore dell’occupazione. Specie dei giovani. Una ricetta che i dipendenti pubblici (e i sindacati) non digeriscono. Lo sciopero lo ha fatto capire. E la recessione è alle porte.


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