Missione irachena, bandiera ammainata

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La cerimonia per la fine della missione statunitense in Iraq è avvenuta a Baghdad senza grandi clamori. Ad assistere all’ammaina bandiera era arrivato dagli Usa il segretario alla difesa Leon Panetta che ha promesso agli iracheni che «avranno negli Usa un amico e un partner convinto». Entro il 31 dicembre si ritireranno gli ultimi 4.000 soldati, anche se resteranno truppe per l’addestramento delle forze irachene. Si conclude così dopo quasi nove anni una guerra che ha visto impegnati complessivamente 1,5 milioni di statunitensi – la presenza americana ha raggiunto in alcuni momenti 170.000 militari – per una spesa complessiva di mille miliardi di dollari. 
Nessun festeggiamento a Baghdad anche se gli iracheni intervistati dai media si dichiaravano soddisfatti del ritiro ma non della situazione lasciata dagli occupanti. 
Gli unici a festeggiare, e ne hanno ben motivo, sono stati gli abitanti di Falluja, la cittadina a una cinquantina di chilometri da Baghdad, la più bersagliata dall’esercito americano. Con bandiere irachene e inneggiando alla resistenza, migliaia di persone sono scese in strada per festeggiare la partenza delle forze Usa. Sunniti e sciiti (venuti anche dal sud del paese) hanno pregato insieme e hanno deposto corone di fiori nei cinque cimiteri della città  dove sono sepolti i martiri. I festeggiamenti dureranno quattro giorni.
Falluja è la città  che, nell’aprile del 2003, ha iniziato la resistenza contro l’occupazione, dopo che i soldati americani avevano sparato sui manifestanti che protestavano per l’occupazione militare di una scuola. Da allora Falluja è stata una sorta di laboratorio dell’Iraq, soprattutto della zona sunnita. Nel 2004, la cittadina ha subito due pesanti attacchi – ad aprile e poi a novembre – dell’esercito americano. In novembre, gli Usa avevano lanciato l’offensiva «finale» che doveva portare alla distruzione di questo simbolo prima delle elezioni del gennaio 2005. È stata la più cruenta battaglia combattuta in Iraq, sia per le vittime – migliaia di iracheni e 140 statunitensi – che per l’uso di armi al fosforo bianco. La città  è stata in gran parte distrutta.
La provincia di Anbar, dove si trova Falluja, aveva visto anche la presenza di gruppi di al Qaeda e poi la formazione dei Gruppi del risveglio che – in seguito a un accordo con il generale Usa Petraeus – avevano combattuto i terroristi. In cambio i combattenti avevano chiesto di essere reintegrati nell’esercito, ma solo 25.000 dei 100.000 impegnati contro al Qaeda sono stati effettivamente reintegrati. Il governo guidato dal Nuri al Maliki, del partito religioso sciita Dawa, non ha voluto mantenere la promessa fatta dal generale Petraeus ai leader dei Gruppi del risveglio. 
Questo è uno dei fattori che potrebbe portare a una nuova destabilizzazione della regione.
Intanto i soldati statunitensi rientrati sono stati accolti mercoledì nella base di Fort Bragg dal presidente Barack Obama. Ringraziando le truppe, il presidente statunitense ha detto: «Ora l’Iraq non è un luogo perfetto. Ha ancora molte sfide davanti. Ma abbiamo lasciato alle spalle un Iraq sovrano, stabile e autosufficiente, con un governo rappresentativo che è stato eletto dal suo popolo». 
Missione compiuta? Obama mostra ottimismo visto che il suo obiettivo era quello di sganciarsi da una guerra costosa in termini economici e umani, ma la situazione è ben diversa da quella descritta.
Non si può certo dire che l’Iraq sia un paese stabile, il governo è continuamente paralizzato dallo scontro tra le due componenti, quella laica di Allawi e quella confessionale di al Maliki. Inoltre la sicurezza è tornata ad essere un problema con la ripresa degli attacchi terroristici in diverse zone del paese. 
E la mancanza di sicurezza frena gli investimenti, soprattutto nel settore petrolifero dove – nonostante gli azzardi del vice premier per l’energia Shahristani per entrare in concorrenza diretta con l’Arabia saudita soprattutto nel 2012 quando l’Iraq avrà  la presidenza dell’Opec – la produzione rimane molto inferiore alle aspettative. «Sono convinto che il mondo avrà  bisogno del petrolio iracheno … quindi ho deciso di offrire appalti nonostante tutti i problemi e le minacce interne ed esterne», ha detto Shahristani, criticato in parlamento per i mancati obiettivi. Si parlava infatti di poter raggiungere la produzione di 12 milioni di barili al giorno nel 2017, ma secondo gli analisti 6-7 milioni sarebbero già  un successo, per ora una dozzina di compagnie straniere produce 2,9 milioni di barili al giorno. 
Dal petrolio dipende la ricostruzione e lo sviluppo del paese e il superamento di una situazione allarmante: il 23% della popolazione vive sotto il livello di povertà , la disoccupazione è del 15% e il 28% degli impiegati ha un lavoro part-time, secondo i dati ufficiali, non sappiamo quanto credibili. Per non parlare della mancanza di elettricità  che continua ad essere un miraggio per un paese che galleggia sul petrolio.


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