Neve, lacrime e (soprattutto) divise: il lungo addio al Caro Leader

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E neve durante i suoi funerali a Pyongyang, 11 giorni dopo la morte per attacco cardiaco e 9 dopo l’annuncio al mondo: due ore e mezzo di corteo, una quarantina di chilometri dal mausoleo di Kumsusan, decine di migliaia di cittadini lungo il percorso, in lacrime. Kim Jong-un, il terzogenito elevato a Successore e leader supremo, è stato filmato mentre marciava alla destra della limousine con il feretro del padre, a sua volta figlio e successore del fondatore della patria, Kim Il-sung. Cappotto nero e capo scoperto. Sull’altro fianco camminavano alti gerarchi in divisa. Nessuna delegazione straniera, solo i diplomatici con sede a Pyongyang. 
Impaginato come una rappresentazione grafica del potere della Repubblica democratica popolare, il funerale contiene ed esibisce tutti gli elementi che ne compongono l’essenza. La bara avvolta nella bandiera rossa con la falce, il martello e il pennello reclama il primato ideologico del Partito dei Lavoratori; i soldati e le 21 salve di cannone rammentano che la Corea comunista, l’autarchica potenza nucleare su cui solo la Cina ha un certo ascendente, si regge sul dogma del Songun, «Prima i militari»: e via, di dettaglio in dettaglio.
Poi c’è il pianto. Irrefrenabile, a singulti. Le invocazioni al cielo di cittadini e soldati, restituite dalla tv di Stato apparentemente con una lieve differita anche se ufficialmente in diretta. Un amalgama di calcolo e spontaneità . E di isteria collettiva, com’era possibile verificare il 10 ottobre 2010, durante la parata che sancì il ruolo di erede del terzo Kim: osservata a meno di 5 metri di distanza, in un contesto di esuberanza marziale, la prima fila di figuranti della complessa coreografia era una sequenza di giovani donne singhiozzanti con gli occhi puntati in alto, verso la tribuna del leader. Il culto della personalità  alimentato dal regime ha fatto sì che tutto quanto di buono sia accessibile o pensabile venga ricondotto al Caro Leader, e questo spiega in parte le lacrime: la popolazione di Pyongyang è composta dalla crema di una società  ferocemente stratificata, e la prossimità  al centro del potere porta benefici che, di conseguenza, inducono gratitudine. Si aggiungono l’incertezza del futuro (Kim Jong-il era pur sempre il «geniale stratega» di una guerra contro l’America che i nordcoreani considerano insieme vinta e mai conclusa) e anche la consapevolezza — come ha raccontato Barbara Demick in «Per mano nel buio» (edito da Piemme), parlando dei funerali di Kim Il-sung, 1994 — che non piangere può equivalere a una condanna a morte. E dunque piangere — tanto e bene — può aiutare a vivere.


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