Quel “vincolo esterno” che ha salvato l’Italia Draghi: ora tocca a noi
«L’euro è un leone che bela…». Carlo Azeglio Ciampi la vede così: i primi dieci anni della moneta «che non dovrebbe esistere» (come ha scritto uno studio dell’Ubs) hanno fiaccato la “belva”. L’euro non ruggisce, perché all’unione monetaria non si è mai accompagnata l’unione politica. Una «divisa senza sovrano». E’ la famosa zoppia, che proprio Ciampi denunciò profeticamente già nel 1998, all’atto di nascita della moneta unica. Ma in questi giorni di lenta e penosa euroagonia, il presidente emerito della Repubblica si sforza di non perdere l’ottimismo: «La moneta unica reggerà all’urto di questa crisi. Perché i vantaggi dell’euro, al dunque, sono maggiori degli svantaggi. E lo sono per tutti. Per i tedeschi, che hanno beneficiato di un dividendo competitivo formidabile, non solo dal lato delle esportazioni ma anche dal lato della gestione dei tassi di interesse attivi e passivi. Ma anche e soprattutto per noi italiani: senza l’euro saremmo un Paese in bancarotta».
Il break up della moneta unica è ipotesi agghiacciante. Non che qualcuno non ci stia pensando. Gli “gnomi di Zurigo” di Ubs, appunto, che insieme ai “lupi” di Merrill Lynch e ai “samurai” di Nomura fanno i conti su quanto costerebbe il ritorno alle valute nazionali. E poi le università tedesche devote al culto ortodosso della dea pagana Bundesbank, che simulano il Neuro (l’eurone dei ricchi del Nord) e il Sudo (l’euretto degli sfigati del Club Med). Persino nel Belpaese si favoleggia di segretissimi studi di fattibilità elaborati addirittura dalla Banca d’Italia. «Fantasie», le bolla ogni volta il governatore Ignazio Visco. Anche per lui, «l’euro è un destino comune», che ci accomuna tutti e che le classi dirigenti europee hanno il dovere di compiere. Il “come” è tema del terribile 2012 che sta per cominciare.
Dal vasto punto di vista europeo, nessun dubbio: pur con la sua irrisolta “zoppia”, l’euro è stata l’unica vera idea forte prodotta in questa metà del mondo dal secondo dopoguerra. «Un progetto geo-politico in veste monetaria», secondo la felice formula di Lucio Caracciolo. Dal modesto punto di vista italiano, una certezza: pur con tutti i suoi limiti, l’euro è stata l’unica piattaforma politico-economica sulla quale una nazione incompiuta ha cercato di rifarsi un’identità . Non ci è ancora riuscita, e i fatti di questi mesi lo dimostrano. Se la moneta unica rischia il collasso, molto si deve anche al fatto che l’Italia, dopo una parentesi virtuosa e rigorosa tra il 1996 e il 2000, è tornata a praticare il solito lassismo finanziario, e dunque a destabilizzare il non più solido edificio comunitario. Ma l’euro rimane comunque un’altra prova, l’ennesima, di quel vincolo esterno che ci ha salvato già tante volte, come amava ripetere Guido Carli. Se c’è un momento in cui questo Paese ha sentito un barlume di orgoglio unitario e identitario è stato al tempo del traguardo di Maastricht, quando i tedeschi del falco Tietmeyer e gli olandesi del cervellotico Zalm non ci volevano nel gruppo di testa.
Fu allora che il Paese riuscì ad abbattere il suo deficit al 3% e il suo debito al 103% del Pil, e gli italiani accettarono senza battere ciglio l’ennesima stangata (l’eurotassa di Prodi). Come ricorda oggi Ciampi: «La gente percepì quegli sforzi come un dovere naturale, come una cosa giusta da fare. E infatti la facemmo, senza traumi e senza conflitti sociali». Resta il mistero di un successo propiziato da un pezzo di establishment che alcuni anni prima, nel febbraio 1992, sottoscrive senza esitazioni il Trattato di Maastricht dal quale tutto è nato: Andreotti e De Michelis, uomini simbolo di quella Prima Repubblica con la quale nasce la “democrazia del debito”, che mettono la propria firma su un progetto che quel debito lo dovrà seppellire, e quella Repubblica la dovrà rinnegare. E resta il mistero di un altro pezzo di establishment che in quel 1996 si batte per evitare che l’Italia agganci il primo vagone dei grandi d’Europa: Berlusconi, Fazio e Romiti, euroscettici per convenienza politica o per convinzione personale che oggi, di fronte ai guai dell’euro, si crogiolano nella corriva ragione del “senno di poi”.
La verità , come diceva Carli, è che il “vincolo esterno” ci ha già salvato tre volte: l’adesione agli accordi di Bretton Woods, l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo, il Trattato sull’Unione politica, economica e monetaria. Con l’approdo all’euro siamo dentro lo stesso percorso: abbiamo aderito a un sistema di vincoli decisi da altri, per cercare almeno una volta di migliorare noi stessi. In questa consapevole cessione di sovranità c’è il desiderio di un riscatto, ma anche il riconoscimento di una sconfitta. Come dice Sabino Cassese, «il cosiddetto vincolo esterno costituisce una fuga dallo Stato, in quanto lo Stato non trova in se stesso la forza della propria modernizzazione». Era il rovello del solito Carli: perché c’è bisogno di un vincolo «per innestare l’economia di mercato nel tessuto vivente, nelle fibre della società , introdurla nella mentalità delle classi dirigenti?». Perché spesso le élite, in nome del popolo, fanno scelte che danneggiano il popolo.
Oggi, di fronte alle dure ed inique manovre del governo Monti, siamo al bivio. Meglio tornare come eravamo, liberi e irresponsabili, con un carico immane di debito e di inflazione da addossare ai poveri eredi o da scaricare sui rituali nemici? O onorare gli impegni siglati con l’Europa, provando ad essere quello che non siamo, virtuosi e responsabili, capaci di abbattere il debito e dimostrare ai tedeschi che Italia-Germania non è solo 4 a 3 di Messico ‘70? Quelle manovre le dobbiamo migliorare, nel segno della giustizia sociale. Ma non le possiamo evitare, all’insegna del vecchio azzardo morale. Prima di traslocare a Francoforte, Mario Draghi ha detto: «Una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito d’Oltralpe risolva i nostri problemi. Oggi non è così: sarebbe una tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere da fuori. Spettano a noi». Euro o non euro, si tratta di trasformare il vincolo esterno in vincolo interno. Non è questione di odioso mercatismo, ma solo di sano civismo.
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