Torino e Firenze, cosa succede alle nostre città ?

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Nella Torino degli anni ’60 insieme ai cartelli «non si affitta ai meridionali» si era messo in moto un grande processo di integrazione basato sulla scuola pubblica e sui servizi sociali. Martedì su queste pagine, Marco Revelli attribuiva giustamente questo risultato alla cultura della solidarietà  operaia allora vincente. Nella Firenze di Giorgio La Pira si mise in moto un inedito clima di sostegno alla vertenza delle officine Pignone minacciate di chiusura e lo stesso sindaco fu in prima fila nella battaglia per dare una casa ai fiorentini. Prese addirittura la decisione di requisire alloggi vuoti per darli agli sfrattati. 
Le città  di quegli anni avevano dunque un senso di appartenenza che, al di là  della collocazione sociale di ciascuno gruppo, fornivano servizi, assistenza e integrazione. Erano insomma i luoghi della convivenza pubblica, e come tali venivano percepite da tutti. L’uccisione a freddo dei senegalesi nei mercati rionali fiorentini e il tentativo di pogrom contro i rom torinesi avvengono in un vuoto quotidiano, fatto di indifferenza e scetticismo. Come se la concezione stessa della città  luogo pubblico fosse stata spazzata via. È questo il tema di fondo che ci interroga e al quale dobbiamo dare una risposta. Dobbiamo cioè chiederci se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città  pubblica, il bene comune per eccellenza. 
Ci accorgeremmo allora che i protagonisti di Torino e Firenze non sono «mostri»: sono i frutti avvelenati della devastazione culturale. La furia dei liberisti non ha infatti risparmiato nulla e nessuno. Le scuole dei piccoli centri sono state chiuse. Nelle grandi città  vivono in perenne stato di instabilità  per le carenze di manutenzione e di personale. I servizi sociali sono falcidiati dovunque «perché non ci sono i soldi». Questa formula magica non vale per il servizio sanitario nazionale che è stato invece privatizzato e affidato (a nostre spese) alle caritatevoli mani dei Don Verzè, degli Angelucci e dei Tarantini di turno. I trasporti urbani dal prossimo gennaio saranno ulteriormente tagliati fino quasi ad annullarli. 
Ciascun cittadino è dunque solo nell’affrontare la vita: la rete sociale del welfare è stata cancellata. Le città  sono state ridotte a luoghi anonimi, utili all’arricchimento della proprietà  fondiaria. Nel decidere nuovi progetti non si discute mai se esiste o meno la convenienza sociale; se le abitazioni costeranno di meno; se ci si metterà  meno tempo per andare al lavoro. Si discute soltanto – Sesto San Giovanni è una miniera al riguardo – di quante centinaia di migliaia di metri cubi occorre incrementare i progetti per ignobili arricchimenti e vergognose prebende. 
Stanno in questo devastante deserto le radici dell’indifferenza, del rancore diffuso. E stanno sempre qui i rischi dell’accendersi di una ulteriore spirale di violenza razzista. Gli ingredienti ci sono tutti. Con la crisi economica sempre più grave aumenteranno le disuguaglianze e le fasce di emarginazione. Senegalesi e rom saranno, ancora di più, facili bersagli per tutti coloro che vogliono far dimenticare che le origini della crisi stanno in un sistema economico ed urbano perverso che non si ha il coraggio di fermare.
Il pericolo si aggrava ulteriormente se si analizzano i provvedimenti che i professori al governo stanno prendendo in questi giorni. Purtroppo destinati a cercare vie di fuga violente dall’impoverimento di larghi strati della popolazione.


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