Tutti i buchi della manovra

by Sergio Segio | 10 Dicembre 2011 8:52

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Anche nelle parole con cui Nicolas Sarkozy ha respinto le richieste di David Cameron nel dibattito sull’unione fiscale, vi è l’eco di antiche posizioni golliste. La Francia ha «inventato» l’Europa comunitaria e non ha mai rinunciato al desiderio di averne la leadership. Può accettare una sorta di condominio franco-tedesco, ma non è disposta a tollerare che la Gran Bretagna governi dalle coste dell’Europa, con le sue riserve mentali e le sue prerogative speciali, le sorti dell’Unione. Può accettare e favorire la collaborazione militare con la Gran Bretagna, come nel caso dell’operazione libica, ma nelle questioni che concernono l’Ue e le sue istituzioni la Francia non intende permettere che Londra abbia un diritto di veto. Se la questione fosse esclusivamente in questi termini, l’Italia avrebbe in qualche circostanza il diritto di stare dalla parte della Gran Bretagna piuttosto che da quella della Francia. Finché l’Europa non sarà  veramente e schiettamente federale, all’Italia interessa che al vertice dell’Unione vi sia un direttorio fluido, composto dai suoi maggiori Paesi, piuttosto che da una leadership francese o franco-tedesca. Quando ha parlato lungamente con David Cameron, prima dell’inizio del vertice di Bruxelles, Mario Monti ha fatto esattamente ciò che avevano fatto in circostanze analoghe i presidenti del Consiglio e i ministri degli Esteri italiani dell’era democristiana. Ma i termini del problema sono oggi diversi. Il punto in discussione non è, in questo momento, quello della leadership. Il punto è un altro. Quale delle soluzioni all’ordine del giorno può servire al superamento della crisi? È indispensabile, per mantenere la Gran Bretagna nell’unione fiscale, accettare le sue condizioni e le sue riserve? Per rispondere a questa seconda domanda è utile ricordare quale sia stata la politica europea di Londra dopo la nascita del Mercato comune. Durante i negoziati per la creazione della Comunità  economica europea, la Gran Bretagna fu invitata a farne parte. Rifiutò perché preferiva, secondo una famosa espressione di Churchill, il «gran largo», vale a dire il Commonwealth, il rapporto speciale con gli Stati Uniti e una politica europea compatibile con le sue ambizioni mondiali. Ma al tempo stesso voleva evitare una unione troppo stretta degli Stati europei e contrappose al Mercato comune un’Associazione europea di libero scambio (Efta, European Free Trade Association), costituita nel 1959 con la partecipazione di Austria, Danimarca, Norvegia, Svezia e Svizzera. L’Efta non era soltanto un progetto economico. Era la grande nave inglese che avrebbe raccolto a bordo i naufraghi del Mercato comune non appena la barca della Comunità  europea fosse finita sugli scogli. Le cose non andarono secondo le previsioni della Gran Bretagna. Mentre l’Efta stentava a decollare e l’economia britannica soffriva di stagflation (una combinazione di stagnazione e inflazione), il successo del Mercato comune era confermato dall’espansione dei rapporti commerciali fra i sei Paesi che ne facevano parte. Qualche anno dopo Londra, pragmaticamente, prese atto dell’insuccesso del suo progetto, chiese di entrare nella Comunità , subì pazientemente il veto gollista e raggiunse lo scopo, finalmente, nel 1972. Aveva cambiato la sua tattica ma non la sua strategia. Non entrò nella Comunità  per collaborare al progetto degli Stati fondatori. Vi entrò per sorvegliare da vicino il processo unitario e impedire che l’Europa divenisse una federazione. Perseguì lo scopo frenando gli ardori unitari dei suoi nuovi compagni di viaggio e ottenendo per sé, come nel caso della politica agricola comune, un trattamento particolare e privilegiato. Questo non significa che il suo ruolo sia stato costantemente e coerentemente negativo. Portò con sé alcuni fondamentali principi dell’economia di mercato, il patrimonio delle sue esperienze internazionali e una grande serietà  nell’applicazione delle regole pattuite fra i membri. Alcuni dei suoi commissari, da Roy Jenkins a Neil Kinnock e Chris Patten, furono impeccabilmente europei. Ma gli scopi della sua politica restavano fondamentalmente gli stessi: evitare che i progressi dell’Unione impedissero alla Gran Bretagna di essere il perno indispensabile di una grande comunità  atlantica composta dall’Europa e dagli Stati Uniti. Questo disegno divenne sempre più evidente a mano a mano che la Comunità  europea progrediva sulla strada della sua unità . Al vertice europeo del Castello Sforzesco, nel 1985, Margaret Thatcher cercò inutilmente di opporsi alla convocazione di una conferenza intergovernativa che avrebbe fissato le tappe successive della costruzione europea. Durante i negoziati per l’Unione economica e monetaria (Maastricht 1992), il primo ministro John Major ottenne per il suo Paese il diritto di non sottoscrivere il protocollo sociale dell’Unione e di non adottare la moneta unica. Dopo il crollo dell’impero sovietico in Europa centro-orientale, Major fu il maggiore sostenitore dell’allargamento agli ex satelliti dell’Urss. Era convinto, con ragione, che un’Europa allargata e diluita avrebbe reso il federalismo ancora più difficile e remoto. Credemmo per un momento che l’arrivo di Tony Blair avrebbe modificato le grandi linee della politica britannica. Ma ci accorgemmo rapidamente che anche Blair, messo alle strette, preferiva il «gran largo» del rapporto privilegiato con gli Stati Uniti al futuro federale dell’Unione Europea. Oggi la Gran Bretagna ha un primo ministro conservatore, esponente di un partito che nel corso dell’ultimo decennio, mentre era all’opposizione, ha accentuato le sue tendenze euroscettiche. Ma il suo governo, a cui partecipano anche gli europeisti del partito liberal-democratico, attraversa una grande crisi economico-finanziaria e scopre improvvisamente che la morte del detestato euro renderebbe ancora più gravi le condizioni del Regno Unito. Deve quindi aiutare gli altri Paesi dell’Ue a salvarlo, ma vorrebbe al tempo stesso un nuovo opt-out per i servizi finanziari britannici, vale a dire una sorta di extraterritorialità  per la City di Londra; e cerca di ottenere lo scopo impedendo con il suo veto la conclusione di un nuovo trattato dell’Unione. Ma non può impedire che i suoi partner concludano una serie di accordi intergovernativi e corre il rischio di finire in un girone minore dal quale non potrà  condizionare la politica di quella parte dell’Ue che vuole creare una unione fiscale. Sarà  molto più difficile per Londra fare d’ora in poi la politica del doppio binario, ora europeo, ora atlantico. Ma la Gran Bretagna è un Paese pragmatico che riesce sempre, prima o dopo, a fare scelte realistiche. I Paesi dell’euro, nel frattempo, non hanno l’obbligo di aspettarla.

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