Un fruttivendolo sconvolse il mondo

by Editore | 31 Dicembre 2011 9:47

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Il mondo aveva altro a cui pensare, quel 18 dicembre 2010. Ma quel giorno e l’uomo che ne fu protagonista segnano l’inizio della fine di un ordine costituito nel Maghreb e nel Vicino Oriente. Quel giorno ha inizio «l’89 arabo». Un giovane ambulante si dà  fuoco, davanti all’edificio del governo tunisino a Sibi Bouzid, per protestare contro le autorità  che gli hanno confiscato tutto e gli impediscono di lavorare. Mohamed Bouazizi – personalità  dell’anno per The Times muore il 4 gennaio, quando è già  diventato un eroe per le masse del mondo arabo, in particolare dell’Africa del Nord, strette da decenni nella morsa di regimi autoritari e corruzione endemica.

La sua Tunisia viene stravolta in poco tempo, ne fa le spese il presidente Zine El Abidine Ben Ali e la sua «corte», al potere da 23 anni: il 14 gennaio è costretto a lasciare il Paese, infiammato dalla rivolta. Il vento della primavera si propaga presto in Egitto, Libia, Yemen, Siria, Bahrein, con i governi costretti a fare i conti con vere e proprie rivolte, e in maniera minore in tutti i Paesi arabi. Lo strumento preferito dai dimostranti è internet: Twitter, Facebook, Youtube, diventano i nuovi «manifesti» per sfidare i regimi, indire manifestazioni, distribuire manuali per spiegare come confrontarsi con le forze di sicurezza.
L’89 arabo, che segna indelebilmente il 2011, è anche il portato di un mondo non più sommerso o silente, che s’impadronisce della scena per rivendicare un’altra globalizzazione: la globalizzazione dei diritti. Una rivendicazione che ridefinisce il senso stesso di appartenenza, non più centrata sull’elemento religioso o sull’individuazione del nemico da abbattere, ma calibrata su valori e principi che si percepiscono, e si vivono, come universali. È la forza della rivoluzione jasmine tunisina, come lo spirito che ha animato Piazza Tahrir, la «piazza della liberazione», divenuta il simbolo della rivolta egiziana. Ad eccezione di Libia e Siria, i regimi si sono sciolti come neve al sole in poche settimane: dove si è votato hanno vinto i partiti islamici, che ora dominano lo scenario in Tunisia, Marocco, Egitto. Si tratta per la gran parte di formazioni di ispirazione moderata, che fanno della libertà  e della lotta alla corruzione la propria bandiera, e che sono chiamati oggi e nei prossimi mesi alla prova dei fatti. L’integralismo è in agguato, con le branche armate di Al Qaeda sparse in tutto il Nord Africa che si sono rafforzate economicamente e militarmente, grazie al contrabbando di armi cresciuto a dismisura. La diffusione di internet l’arabo è balzato in testa ai linguaggi più usati fa da contraltare, con migliaia di giovani che hanno «voglia di Occidente». In Libia non sono bastate le dimostrazioni di piazza: l’ostinazione di Muammar Gheddafi ha portato a un conflitto civile esteso nel quale ha giocato un ruolo importante la comunità  internazionale, prima con l’imposizione della no-fly zone da parte dell’Onu, poi con l’intervento diretto della Nato. Nonostante lo schieramento di forze, ci sono voluti migliaia di morti per arrivare a vedere la fine del Colonnello, cruenta e per certi aspetti ancora misteriosa Gheddafi è stato ucciso in circostanze ancora non chiarite il 20 ottobre a Sirte -. Tolto di mezzo il raìs, la Libia ha di fronte a sè un lungo percorso per arrivare a consolidare la democrazia.
Anche in Libia i partiti e le fazioni islamiche giocano un ruolo importante, grazie al sostegno del Qatar, nuova potenza regionale esplosa di concerto con la Primavera araba.
In Siria la rivoluzione è in pieno svolgimento: l’Onu stima già  5mila morti e il regime di Bashar al-Assad, forte dei suoi legami storici con Russia e Iran, non sembra intenzionato a fare passi indietro o grandi concessioni sul piano democratico. È però nato un consiglio di opposizione, e anche un esercito di disertori. «Assad come Gheddafi», è il tam tam su Twitter. E mentre nel resto del mondo arabo si teme che dalla Primavera si passi a un inverno islamico, a Damasco si profilano nuove albe di sangue. Resta comunque, il 2011, l’anno della Grande Speranza araba. Quelle rivoluzioni non sono «anti», sono «per». Per la democrazia, per la libertà  di espressione, per la giustizia sociale, per lo sradicamento della corruzione, per una idea di Islam che separi nettamente Stato e Moschea. Sarà  molto difficile che quei «per» si realizzino tutti, e compiutamente. In questo, occorre esercitare il pessimismo della ragione.
Ma non vi è dubbio che quello della libertà  è l’orizzonte a cui tendere. Una prospettiva che assume i diritti dell’uomo, le libertà  politiche e di espressione come valori universali, ma non identifica quei diritti, quei principi con un modello, con stili di vita «occidentali». È la via arabo-islamica alla democrazia. La sfida epocale che il 2011 lascia all’anno che sta arrivando.

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