Vattani, il console con la bandiera nera

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Si capisce, osservandolo sul palco nel ruolo grottesco di camerata spostato e fuori luogo, che Vattani non doveva essere mandato a rappresentare l’Italia non solo in Giappone, che è uno dei cuori del mondo, ma neppure in Kazakhistan o in Turkmenistan. E sarebbe il caso di sapere chi e perché ha invece inviato ad Osaka questo Mario, figlio del più famoso e potente Umberto Vattani, uno dei diplomatici più importanti, fiduciario di Andreotti e di Berlusconi, già  ambasciatore in Germania e segretario generale della Farnesina, a lungo sherpa dell’Italia in tutti i maggiori vertici internazionali con l’hobby sconcertante di girare sulle moto di notte e vestito di pelle. “Tale padre…?”. No: il figlio, come spesso accade, è molto peggio.
Bisognerebbe dunque usare questo caso di “pizza e mandolino” in versione nostalgica di “fascio e mandolino” per smascherare il “tengo famiglia” dell’identità  italiana all’estero. Bisognerebbe cioè approfittare del giovane Vattani – solo in Italia i diplomatici sono ancora giovani a 45 anni – per contare quanti altri Vattani ci sono nel corpo diplomatico. È vero che questa vicenda di “ugola nera” è così grottesca da sembrare la trama di un cinepanettone sui nostri ambasciatori nel mondo, ma finalmente potremmo scoprire il bluff della politica estera italiana e mettere sotto rigorosa e responsabile analisi i processi di formazione e di cooptazione della nostra diplomazia dove la logica del cognome è più dura ed esclusiva che altrove, dove il familismo amorale è la regola del concorso, dove Osaka, New York e tutte le altre città  del mondo sono i premi della diplomazia tribale, i lasciti di papà , doti di famiglia, eredità , come dimostra appunto la storia di Mario Vattani che, senza paparino, sarebbe più da festival canoro degli skinhead che da etichetta protocollare delle cancellerie.
Se poi ci volessimo divertire dovremmo sottoporre Vattani junior ad un esame di geografia e di storia asiatica. Gli italiani infatti hanno il diritto di immaginare che un diplomatico inviato ad Osaka impieghi il tempo libero per studiare le lingue e le economie orientali, progettare opportunità  di scambio tra imprenditori, organizzare incontri, analizzare e approfondire una storia che è ormai un terremoto continuo. Invece Mario Vattani si mette a strimpellare ponendo in ridicolo il suo Paese. Sui palcoscenici dei cosiddetti neofascisti assume nomignoli da forzuto, non “Richelieu” ma “Katanga”, e inneggia a Salò invece di studiare la cultura dei samurai, e si libera dei completi azzimati a tre pezzi che sono la divisa impostata dei nostri diplomatici, e diventa il camerata “Sottofasciasemplice”, camicia nera e tatuaggi sul braccio, chitarra e saluti romani in una sala battezzata “tana delle tigri” …: è un delirio, una parodia del fascismo eia-eia-alalà  dinanzi alla quale persino Ignazio La Russa con i suoi completi militari e le sue collezioni di soldatini appare inadeguato. Altro che fascismo, questa è fascisteria, fasci-scimmiottismo, una patologia politica che non è eversione ma autoirrisione, non è roba da scomodare Ferruccio Parri ma Ugo Tognazzi. Soprattutto è l’ennesima prova dell’inconsistenza della politica estera italiana. E non è un caso che Vattani sia stato per molti anni la testa pensante della pittoresca corte clientelare di Gianni Alemanno.
Raccontato dal quotidiano l’Unità , Mario Vattani è stato prima difeso e poi, per forza, mollato dal suo ministro nonché collega diplomatico Giulio Terzi di Sant’Agata. Adesso è deferito alla commissione disciplinare della Farnesina, un organo che a prima vista ci pare più di autodifesa che di pulizia. Difatti le corporazioni italiane, queste sì fasciste, non solo sono blindate – il termine più appropriato sarebbe il bizantino catafratte – contro le incursioni esterne, ma sempre si autogiudicano e ovviamente si autoassolvono. Vedrete: il camerata Mario Vattani sarà , forse, formalmente rimosso ma poi, certamente, promosso.


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