Caselli e il br rimesso in cella 38 anni dopo

by Editore | 27 Gennaio 2012 7:37

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Quando ha letto la prima volta quel nome tra le carte della polizia, Gian Carlo Caselli ha avuto un moto d’incredulità : «No, non può essere lui». Ma poi ha controllato, e quel signore «dalla corporatura magra e di altezza media, carnagione chiara ed età  verosimilmente avanzata», ripreso il 3 luglio 2011 mentre «scaglia con violenza, in rapida successione, quattro sassi di grosse dimensioni in direzione del personale in divisa», veniva individuato proprio in Paolo Maurizio Ferrari, nato a Modena il 22 settembre 1945; la stessa persona che Caselli aveva fatto arrestare trentotto anni prima. Lui era un giovane giudice istruttore torinese, alle prese con le prime azioni di un gruppo che si firmava Brigate rosse, e Ferrari un giovane militante dell’organizzazione sulla cui genuinità  molti nutrivano ancora dubbi, chiamandole «sedicenti» Br. Così il nastro della memoria s’è riavvolto, facendo affiorare una figura che il magistrato pensava fosse definitivamente uscita dal suo orizzonte professionale. Invece no. 
Finito in carcere il 27 maggio 1974 per un’impronta digitale trovata sul furgone usato per sequestrare il sindacalista della Cisnal Bruno Labate — rilasciato dopo poche ore, rasato a zero e con un cartello al collo con la stella a cinque punte, davanti ai cancelli della Fiat), Ferrari annunciò: «Sono un militante comunista, cresciuto nelle lotte operaie dal ’69 ad oggi. Da sempre le galere sono terreno rivoluzionario, non mancherò di essere al mio posto nella lotta». È quel che fece, a modo suo. Col suo barbone rosso, nell’aula della corte d’assise dove si celebrò il primo processo al nucleo storico delle Br era uno dei portavoce. Quello che avvisò i difensori d’ufficio: «Considereremo quelli che accetteranno il mandato collaborazionisti e complici del tribunale di regime; essi si assumeranno tutte le responsabilità  che ciò comporta di fronte al movimento rivoluzionario». Era una minaccia di morte, e nel ’77 i compagni di Ferrari in libertà  assassinarono il primo tra gli avvocati d’ufficio, il presidente dell’Ordine Fulvio Croce.

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