Contratti unici e capitale umano

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Non è affatto sicuro che riduca la temporaneità  di fatto dei contratti, che è uno degli obiettivi espliciti dei proponenti. È vero, infatti, che il contratto unico sarebbe a tempo indeterminato. Ma in cambio di un periodo di prova di fatto allungato fino a tre anni. Durante questo periodo, secondo le proposte in circolazione, il lavoratore può essere licenziato senza vincoli di alcun tipo, salvo quelli che puniscono il comportamento discriminatorio da parte del datore di lavoro. In caso di licenziamento con motivazioni diverse dalla giusta causa, il datore di lavoro è tenuto a pagare un indennizzo, pari a 15 giorni di stipendio ogni trimestre lavorato, secondo la proposta di Boeri e Garibaldi ripresa nel disegno di legge Nerozzi e messa ufficialmente sul tavolo della trattativa. Al lavoratore licenziato senza giusta causa allo scadere dei tre anni spetterebbe un’indennità  pari a sei mesi di stipendio. Questo obbligo di indennizzo, oltre ad offrire un cuscinetto di protezione per il lavoratore che perde il lavoro e il reddito, dovrebbe costituire un deterrente ai licenziamenti, divenuti costosi per il datore di lavoro. La proposta prevede anche l’impossibilità  di ricorrere al trucco, molto utilizzato da diversi imprenditori, di licenziare e riassumere, per impedire sia la maturazione dei tre anni, sia di raggiungere il massimo dell’indennità . Ad ogni riassunzione si parte dal livello di anzianità  di servizio raggiunto prima del licenziamento.
In un Paese con una classe imprenditoriale matura, che investe nella propria forza lavoro e che considera uno spreco di risorse un turn over troppo accentuato della propria forza lavoro, questo modello contrattuale apparirebbe ragionevole ed equilibrato. Le aziende, avendo un periodo di prova lungo in cui valutare, ma anche formare, chi hanno assunto, a meno che proprio non ne abbiano più bisogno per motivi economici e di mercato, se li terrebbero per non vanificare l’investimento fatto. Proprio i comportamenti delle imprese di questi anni inducono invece ad un po’ di pessimismo. Si pensi all’uso sfrenato che è stato fatto di ogni opportunità  di utilizzo usa e getta della forza lavoro, anche di quella più qualificata, alla rincorsa che c’è stata alle forme contrattuali più precarie, al punto che in alcune zone oggi non si fa più neppure il contratto a tempo determinato, o stagionale, ma si utilizzano i buoni lavoro, che non richiedono nessun contratto. Il rischio è che i contratti unici a tempo indeterminato vengano utilizzati invece come contratti a tempo determinatissimo, cortissimo, con un turn over ancora maggiore di quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni: invece di rinnovare brevi contratti a termine alle stesse persone faranno contratti unici che dureranno poco a persone sempre diverse. 
Questo pessimismo non deve indurre ad abbandonare la strada del contratto unico. Piuttosto dovrebbe suggerire la necessità  di introdurre di vincolo al rapporto tra numero di contratti rescissi e avviati nell’arco di un anno, oltre a qualche controllo su iniziative ben note di imprenditoria creativa, quali la scomposizione di una società  in società  diverse, in modo che i lavoratori licenziati da una possano essere riassunti da un’altra, figliata dalla prima, interrompendo ogni vincolo di continuità . È già  successo per fruire di misure di fiscalità  di vantaggio o di incentivi. Può succedere di nuovo per aggirare i vincoli del contratto unico. Se la creatività  della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità  di quella sfoggiata nell’utilizzare le possibilità  offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività  in Europa e nel mondo.


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