Così la Ue non funziona

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Come ha fatto con Sarkozy, Mario Monti ripeterà  oggi ad Angela Merkel che l’Europa non deve più avere paura dell’Italia. Ma alla luce dal nuovo trattato intergovernativo in via di elaborazione, la cui nascita Merkel e Sarkozy hanno deciso di accelerare, l’assunto andrebbe forse capovolto: l’Italia deve avere paura dell’Europa, oltre che di se stessa? Posto così, l’interrogativo può apparire provocatorio. Con una serie di «manovre», l’ultima del governo Monti particolarmente pesante, il nostro Paese ha dimostrato ai soci comunitari (in attesa di convincere anche i mercati) che intende fare sul serio e correggere gli stravizi del passato e del presente. Quanto all’Europa e alla moneta comune, sappiamo tutti che in loro assenza i fardelli da portare sarebbero stati molto più pesanti. La Ue, anche al netto dei ricorrenti eccessi di retorica che sul tema europeo hanno caratterizzato il nostro dibattito interno, è stata e continua ad essere per l’Italia un ancoraggio prezioso. 
Perché, allora, dovremmo avere «paura dell’Europa»? Se si vuole provare a rispondere è necessario riconoscere con onestà  intellettuale di quale Europa facciamo parte. Di una Europa che da anni è guidata dalla rinazionalizzazione dei governi più che dalle sue istituzioni comuni, di una Europa ormai consegnata alle molteplici e assai diverse velocità  (basti pensare ai dati macroeconomici tedeschi paragonati a quelli spagnoli, con il massimo di occupazione da una parte e il massimo di disoccupazione dall’altra), di una Europa, per arrivare subito al punto, dominata non dall’asse Parigi-Berlino bensì da Berlino.
Su questa Europa gravano due tendenze che un europeista non può che considerare potenzialmente esplosive, capaci, cioè, di portare alla disgregazione finale. Primo, non viene considerata obbligatoria, e anzi viene esplicitamente respinta proprio dal colosso tedesco, la clausola fondante della Unione (!) europea, ovvero la solidarietà  tra i suoi membri. Oggi prevalgono invece i fronti politici interni e le rispettive opinioni pubbliche, che senza porsi troppe domande su chi abbia profittato di cosa «non intendono pagare per gli altri». Secondo, la timoniera della nave europea Angela Merkel, nel disegnare le regole di una cultura del rigore di bilancio (ecco, appunto, il nuovo trattato in preparazione) sembra impegnata a varare un puro e semplice trasferimento a tutti gli altri soci delle esperienze positivamente fatte in Germania, nelle condizioni proprie della Germania. 
La combinazione di questi due elementi entrambi voluti da Berlino e sottoscritti, talvolta a denti stretti, dalla Francia, è stata accettata da tutti — e oggi appare chiaro che si è trattato di un errore — nel vertice europeo del 9 dicembre, quando soltanto la Gran Bretagna si è sfilata peraltro con motivazioni relative alla sua non appartenenza all’eurozona. Sono state gettate, con la ricetta tedesca, le basi perché «crisi del genere non possano ripetersi», come spiega la Merkel. Ma il fuoco che divampa ora, quello chi lo spegne? In assenza di un trade-off (regole tedesche contro eurobond e ruolo più ampio della Banca centrale europea) i mercati hanno reagito male, come era scontato. E ora i problemi irrisolti sono diventati urgenti e decisivi. 
L’Italia ha capito un po’ tardivamente che, in aggiunta ad altre clausole a noi poco favorevoli, ridurre il debito pubblico di un ventesimo l’anno comporterebbe il peso, ingestibile politicamente e socialmente, di una manovra attorno ai 45 miliardi di euro ogni dodici mesi soltanto a quello scopo. Donde le nostre richieste di flessibilità , di altri criteri di cui bisognerebbe tener conto per non strangolarci pur volendo noi partecipare alla nuova disciplina di bilancio. 
Se Roma sperava in un concreto appoggio della Francia, l’ultimo vertice Merkel-Sarkozy è venuto a ridimensionare quelle che peraltro erano pie illusioni. Sarkozy ha le Presidenziali alle porte, e il suo asse franco-tedesco, destinato comunque a sopravvivere fin che ci sarà  l’Europa, è diventato anche e soprattutto un asse elettorale nel quale si vuole dimostrare che lui è un valido interlocutore della Germania mentre il signor Hollande non lo sarebbe. Figuriamoci se un interesse del genere può essere messo a rischio di un troppo audace appoggio all’Italia. E la Germania?
La Germania non concederà  molto a Mario Monti. Ma non è questo il punto. Quel che conta è capire che ormai la Germania di Angela Merkel deve compiere una scelta strategica determinante per tutti. Se resterà  ferma anche nel prossimo futuro sui suoi nein attuali, l’euro e l’Europa come è avranno poche possibilità  di sopravvivenza. La scelta sarà  allora stata a favore di una moneta unica diversa in una Europa diversa, centro-nord-orientale, con i mediterranei indisciplinati fuori o in serie B e la Francia in bilico. Se invece la scelta sarà  quella che viene ogni giorno proclamata, difendere questo euro e difendere questa Europa, Angela Merkel dovrà  scoprirsi leader e convincere il suo popolo che la solidarietà  serve e il rigore non è sinonimo di autoaffondamento. Due test cruciali sono pronti: la flessibilità  nel trattato di bilancio e la dotazione finanziaria, oggi insufficiente, dei fondi salva Stati. Dopo, si tratterà  soltanto di aspettare.


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