by Editore | 29 Gennaio 2012 3:54
Legnano – «Comincio timidamente a disegnare. Forse così mi salvo. Nel pericolo avrò forse una ragione di resistere». Novembre 1944. L’artista sloveno Zoran Music è la matricola 128231 del campo di concetramento di Dachau. Ha 35 anni. È nato a Bukovica, un villaggio di confine a pochi chilometri da Gorizia, allora territorio austroungarico, occupato dai nazifascisti. La sua colpa, avere rifiutato l’arruolamento nelle SS. Il fisico robusto, che lo aiuterà a sopravvivere, lo rende “sfruttabile” per il lavoro nello stabilimento di munizioni. Dove di nascosto si procura carta e matita. «Disegno come in tranche… le cose viste strada facendo verso la fabbrica». Scene agghiaccianti: «L’arrivo di un trasporto. Un carro bestiame aperto. Cascano fuori i morti. Qualche sopravvissuto impazzito urla, con gli occhi fuori dalle orbite».
Sei mesi vissuti «in un quotidiano paesaggio di morti e di moribondi», testimoniati dagli strazianti disegni che aprono la mostra “Se questo è un uomo” curata da Flavio Arensi a Legnano (Palazzo Leone da Perego, fino al 19 febbraio, catalogo Allemandi). Il titolo è lo stesso del memoriale di Primo Levi da Auschwitz: «Voi che vivete sicuri – nelle vostre tiepide case – voi che trovate tornando a sera – il cibo caldo e visi amici – considerate se questo è un uomo – che lavora nel fango – che non conosce pace – che lotta per mezzo pane – che muore per un sì o per un no».
I primi fogli in mostra, mai visti in Italia, prestati da un collezionista sloveno, sono datati “Dachau 1945”. Poveri corpi ridotti a scheletri, adagiati per terra, in attesa di sepoltura, nei giorni della liberazione del campo da parte dell’esercito americano. Nelle sale successive colpiscono al cuore i dipinti e le incisioni del ciclo “Noi non siamo gli ultimi”, realizzato a partire dal 1970. Music vive tra Parigi e Venezia, è un artista di successo. «Ma ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi, come centinaia di scintille pungenti». L’incubo resuscitato si fa memoria e monito. La Shoah potrebbe ripetersi, avverte con queste opere. Volti scarnificati, contratti in smorfie di dolore che ricordano l’Urlo di Munch. Mani magre, aggrovigliate come radici di un albero rinsecchito. Corpi, cataste di corpi, che svaniscono in un pallore informale: «Il bianco era il colore dei cadaveri senza quasi più carne».
Integra l’esposizione una piccola ma efficace antologia dell’altro Music, protagonista di un percorso pittorico iniziato nel segno di una figurazione lieve (Cavalli che passano, 1948), approdato a un’astrazione informale (Terre dalmate, 1960), sempre con uno stile parsimonioso, fatto di pochi segni e pochi colori. Ecco i paesaggi senesi del dopoguerra (quando Music viaggia in Italia come giornalista), la Cattedrale parigina del 1984, che ricorda Monet ma ne ribalta la prospettiva e l’umore (Music non è stregato dalla luce che accarezza la facciata, ma dal buio che avvolge l’interno), la Giudecca e altri scorci veneziani (i cordami aggrovigliati evocano le braccia dei morti nei campi), i toccanti ritratti della Donna con cappello, l’amatissima moglie e musa Ida Barbarigo. Chiudono il percorso gli evanescenti autoritratti degli anni ’90. Music, quasi cieco, vi appare come una Grande figura grigia avvolta nella nebbia. Morirà quasi centenario. Le sue ceneri sono custodite in laguna, sull’isola di San Michele.
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