Gli operai cinesi e i costi (umani) dell’iPhone

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Il mondo, in fondo, cambia poco. Un secolo fa, i socialisti cantavano canzoni nelle quali il proletariato scavava l’oro, ma in buchi bui e umidi e poi, nelle soffitte, mancava il pane. Ugualmente, oggi, i prodotti tecnologicamente più affascinanti, più cool possono uscire da officine pericolose, qualche volta mortali, dove lo sfruttamento è ancora la regola. La denuncia — non nuova ma molto forte — era sul New York Times di ieri: le pessime condizioni di lavoro, inaccettabili in Occidente, delle fabbriche cinesi che producono gli iPhone e gli iPad della Apple. Un’inchiesta — alla quale la società  di Cupertino non ha voluto replicare — che denuncia morti, turni massacranti, ambienti di lavoro pessimi, metodi di produzione pesantissimi negli impianti della Foxconn, il più grande datore di lavoro della terra che produce il 40 per cento dell’elettronica di consumo del mondo (non solo Apple ma anche Amazon, Dell, Nintendo, Hewlett-Packard, Nokia, Samsung).
E anche gli eroi, i quasi santi, come le loro creazioni, certe volte prendono tutta la luce che ad altri non è mai arrivata perché sepolti in caverne nelle quali montare per 12 ore al giorno gli schermi di uno smartphone e in dormitori, sei letti a castello in poco più di cinque metri quadrati, nei quali ricostituire le energie. Anche Steve Jobs, probabilmente, dovrebbe rispondere di questi destini, se fosse ancora in vita. Nel 2010, ricorda il Times di New York, discusse in pubblico le condizioni di lavoro nelle fabbriche fornitrici della Apple. «Vai in questo posto — raccontò — ed è una fabbrica, ma, mio Dio, hanno ristoranti e teatri per il cinema e ospedali e piscine, dico io, per essere un fabbrica non è affatto male».
La realtà  â€” ha stabilito l’inchiesta — è ben diversa: caffetteria e infermeria ci sono, ma le condizioni restano dure, pessime. Da almeno trenta interviste — dice il New York Times — risulta che l’interesse di Apple per gli standard lavorativi nelle fabbriche dei suoi fornitori sia bassissimo, soprattutto se paragonato alla nota ossessione dell’azienda per la qualità  finale dei prodotti. E che poco ha fatto per migliorarli. «Gran parte della gente sarebbe veramente turbata se vedesse da dove arriva il suo iPhone», dice un ex dipendente Apple.
Sullo stesso giornale, e sempre ieri, l’opinionista principe di politica estera, Thomas Friedman, racconta però, con ammirazione, un cambiamento di design dell’ultimo minuto introdotto dalla Apple allo screen dell’iPhone. Appena avvertita, in piena notte, la fabbrica svegliò nei dormitori ottomila operai, dette loro un biscotto e una tazza di tè: la mattina dopo il processo produttivo era stato ridisegnato e 96 ore dopo si producevano diecimila iPhone al giorno, con lo schermo nuovo. È la faccia straordinaria della Cina, quella che ne fa la fabbrica del pianeta e grazie alla quale milioni di contadini si sono inurbati e sono usciti dalla miseria. Perché anche oggi, come nell’era delle canzoni socialiste, le facce del lavoro sono sempre due: una progressista che si porta dietro l’altra, quella che fa paura.


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