Il capitano e la multinazionale

by Editore | 19 Gennaio 2012 7:04

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La circostanza interessante, secondo me, sta nel fatto che attorno al naufragio della Costa Concordia si è creato un autentico dramma personale, quello del capitano Schettini. Ci si è appassionati alle vicende dell’eterna figura dell’italiano fellone e vile, quello che Alberto Sordi sapeva rappresentare in modo magnifico. Ci siamo tutti chiesti, come Nanni Moretti, se «ce lo meritiamo», uno come Schettini. La registrazione della sua telefonata con la capitaneria di Livorno è da antologia, ha toni quasi alla Dostojevski, con lo scontro tra la rettitudine e il senso del dovere inflessibile – nel tono di voce – del comandante De Falco, e il puerile, codardo tentativo di Schettini di sfuggire alle sue responsabilità , nel naufragio prima e nel salvataggio dei passeggeri che gli erano affidati poi. Metafora dell’Italia, hanno detto in molti. Metafora dell’intera Europa, anzi della “zona euro”, ha scritto il Wall Street Journal (a cui sarebbe utile ricordare l’uragano Katrina a New Orleans o il disastro petrolifero nel Golfo del Messico, ma lasciamo stare).
Il fatto è che questo autentico dramma, questa rappresentazione, pareva aver esaurito la capacità  di attenzione del pubblico dei media, che non solo viene solitamente trascinato di qua e di là  in modo isterico (prima il cinese e la sua bambina uccisi a Roma, poi il vigile ammazzato a Milano da un “nomade” con passaporto tedesco però serbo, anzi serbo-croato, o più genericamente slavo, ecc, infine la Concordia, in mezzo al rumore di fondo di “spread” e “rating”). Il duro e documentato articolo di Bologna smentisce questo luogo comune: mostra che le persone, se vengono offerte informazioni in grado di far loro capire il contesto, il retroterra, di un evento come quel naufragio, ne approfittano subito. 
Bologna racconta un dramma collettivo molto complesso e molto pericoloso, i cui protagonsiti sono le “multinazionali del mare” come Costa, una cui porta-container sta attualmente avvelenando un tratto di mare della Nuova Zelanda, e un’altra giace sugli scogli del Giglio. Effetti, ambedue, dell’inesorabile logica aziendale, che pretende equipaggi precari e sottopagati, gigantismo delle navi, turismo predatorio, continua escavazione dei fondali dei porti per accogliere quelle mega-navi (come nella laguna di Venezia), nebbia totale sulle effettiva attività , trasporto di merci, della compagnia, e così via. Il tutto, scritto in modo non pedante né inutilmente declamatorio: quando si hanno buone informazioni basta metterle in fila, caso mai concludendo, come fa Bologna, con la domanda su come si possa fermare questa tendenza a distruggere i mari. E la risposta è: rendendosi conto che un conflitto sociale è già  in corso, tra i lavoratori del mare e dei porti e le grandi compagnie.
Ma la morale che mi sentirei di trarre, da giornalista, è che non c’è contraddizione, tra l’appassionarsi – in negativo, in questo caso – a vicende personali come quella del capitano Schettini, e l’appassionarsi all’analisi del macchinario in cui uno Schettini opera. Le due cose vanno insieme.
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