Il figlio nasce malato, lo abbandona in ospedale

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ROMA – Non ha riconosciuto il figlio appena nato perché affetto da nanismo e lo ha lasciato alle cure dell’ospedale. Una decisione che, una donna romana, ha preso già  dalla trentaduesima settima di gestazione quando, dopo un esame specifico, ha saputo che il nascituro sarebbe stato disabile.
Non è stato dunque un problema di indigenza economica, come avviene nel novanta per cento dei casi di abbandono in Italia, ma una scelta dettata dalla malformazione di cui il piccolo è affetto.
Il neonato, che ancora non ha un nome, è venuto alla luce due giorni fa nella clinica Nuova Città  di Roma, dopo un parto cesareo pianificato insieme al ginecologo. La mamma ha scelto di non vederlo e da quel momento i medici della neonatologia si sono presi cura di lui. Purtroppo il piccolo ha avuto subito una brutta complicazione: malgrado i suoi tre chili di peso (e 49 centimetri di lunghezza) ha avuto un problema polmonare e, due ore dopo la nascita, è stato trasferito nella terapia intensiva di un altro ospedale, il Villa San Pietro. Per ora le sue condizioni sono stabili ma nei prossimi giorni, se il problema dovesse persistere, non è escluso che i medici debbano intervenire con delle cannule per agevolare la sua respirazione.
Il vicesindaco di Roma, Sveva Belviso, è andata a trovarlo in ospedale e ha parlato a lungo con i medici: «Mi auguro e faccio un appello affinché la madre di questo bambino ci ripensi e lo riconosca. Ha bisogno di essere amato ed accudito». La normativa in vigore in Italia prevede che una mamma che non riconosce il figlio alla nascita possa ripensarci: ha dieci giorni di tempo per tornare sui propri passi, riconoscerlo e riottenerne così l’affidamento. Tuttavia la giovane donna romana, la cui identità  deve per legge rigorosamente restare segreta, sembra davvero convinta della decisione, maturata sei settimane fa, non appena insieme al marito, le è stata comunicata la malformazione scheletrica chiamata in termini medici acondroplasia.
Il tribunale dei Minori dunque deciderà  se, una volta uscito dalla terapia intensiva e trascorsi i dieci giorni, il piccolo sarà  dato in affidamento temporaneo oppure sarà  ospitato in una casa famiglia sotto la tutela del sindaco. «E io – ha affermato la Belviso, già  madre di tre bambini – come vuole la legge ne diventerò la mamma tutrice».
Malgrado l’avvio delle pratiche per l’adottabilità , ci sono in realtà  ancora 60 giorni di tempo perché i genitori possano attivare la sospensione della procedura. Attraverso l’esame del Dna la madre e il padre dovranno però dimostrare di essere i genitori naturali e potranno così riavere il piccolo.
A Roma, lo scorso anno sono state 40 le madri che hanno scelto di non riconoscere il proprio figlio, a fronte di 25mila nascite. Nel settanta per cento dei casi le mamme erano straniere e nel 30 per cento italiane. Le motivazioni, che uno psicologo in forma anonima raccoglie nel momento in cui si avviano le pratiche per il non riconoscimento, nella stragrande maggioranza dei casi sono state di rinuncia al figlio per motivi di indigenza economica. Una piccola percentuale ha invece deciso di lasciare il neonato perché malato. Oggi, nelle case famiglie della capitale, ci sono ancora dieci bambini, alcuni anche in età  scolare, con malformazioni, abbandonati alla nascita, mai reclamati dai genitori naturali e in attesa di essere adottati.


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