In cinese Google si dice Baidu

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Immaginate di incontrare dei cinesi che vi chiedono cosa ne pensate di una manifestazione del 1989 a Trafalgar square in cui l’esercito britannico ha ucciso migliaia di persone riunite nella piazza per protestare contro la poll tax introdotta da Margaret Thatcher. Poi i cinesi vi cominciano a parlare del loro eroe spirituale, il leader di un culto religioso dell’Irlanda del Nord che ricordate vagamente di aver sentito nominare dai mezzi d’informazione come un truffatore. E infine si congratulano con voi per il Nobel per la pace assegnato a un intellettuale britannico di cui non avete mai saputo niente.

Tutto quello che i vostri amici cinesi dicono della Gran Bretagna vi sembra senza senso. Tornate a casa un po’ turbati, ma il vostro sospetto che si sbaglino – o che forse abbiano semplicemente subìto un lavaggio del cervello – è confermato da qualche ricerca su Google. Non si trova nulla sul massacro, sul leader religioso e sull’intellettuale. Vi sembra inverosimile? Questa è la situazione in Cina rispetto ai fatti di piazza Tiananmen, al Dalai Lama e a Liu Xiaobo. E parte della responsabilità  per questo stato di cose è di Baidu, l’equivalente cinese di Google.

Qualche mese fa mi trovavo nel bar di una città  cinese di provincia con un gruppo di dottorandi di un’importante università , anche se non tra le migliori del paese. Dopo qualche bicchiere, le lingue si sono sciolte. Una ragazza particolarmente esuberante che si fa chiamare Lily, come Lily Allen, iscritta a un master in business administration, si è definita un po’ ribelle e ha detto: “Chiunque sia istruito odia il governo cinese”. Per caso sul mio iPad avevo un documentario della Bbc su “La rivoluzione capitalista della Cina”. Era fermo sul fotogramma di piazza Tiananmen in cui si vede un ragazzo che fronteggia i carri armati. Curioso di scoprire cosa i miei giovani e brillanti amici cinesi sapevano degli eventi di quel giorno, e di quel ragazzo, gli ho mostrato il filmato. Sembravano confusi. “L’avete mai visto?”, ho chiesto. Lily è stata la prima a parlare: “Non capisco. Che film è?”. Le ho spiegato che era un servizio della Bbc. Gli studenti erano perplessi.

Nel bar c’era un collegamento wifi – ce ne sono quasi ovunque in Cina – e così mi sono collegato a Google. Malgrado il “grande firewall cinese”, l’apparato statale incaricato di sorvegliare il web e censurare il materiale sgradito alle autorità , Google spesso funziona proprio come in occidente. Ma i ragazzi mi hanno fermato. “No”, hanno detto in coro, “non Google, Baidu”.

Baidu domina il mercato cinese dei motori di ricerca, soprattutto da quando Google nel 2010 ha abbandonato la sua sede di Pechino. Deve la sua esistenza a un commento casuale sentito dal suo fondatore e amministratore delegato, Robin Li. Nei primi anni novanta Li, che ha studiato negli Stati Uniti, frequentava un master in informatica alla Suny, l’università  dello stato di New York, e si sentì punto sul vivo dalla battuta di un professore: “Ci sono i computer in Cina?”. Li decise di cambiare questa percezione della Cina come di un paese tecnologicamente arretrato.

Una provocazione illuminante
Cominciò a lavorare a Wall street e, stando a Baidu, brevettò un metodo di ricerca su internet ribattezzato RankDex poco prima che un certo Larry Page brevettasse un altro metodo destinato a diventare Google. Quando fu fondato Baidu, nel 2000, gli utenti di internet in Cina erano meno di un milione. Oggi Baidu è il motore di ricerca preferito da circa l’85 per cento degli utenti cinesi, che in media passano sul web venti ore alla settimana. Gestisce anche dei social network e altri siti.

Se l’aumento degli utenti di internet in Cina manterrà  il ritmo attuale (si prevede che in cinque anni passeranno da 470 a 750 milioni), Baidu, che è quotato al Nasdaq, potrebbe presto conquistare il monopolio delle ricerche e diventare una macchina per fare soldi del livello di Google. Oggi gli incassi di ­Google arrivano a sette miliardi di dollari all’anno e oscurano completamente quelli di Baidu, che si aggirano intorno al mezzo miliardo di dollari. Ma a luglio Baidu ha annunciato un aumento del 95 per cento dei profitti trimestrali, saliti a 253 milioni, e nel 2011 le sue azioni sono lievitate del 65 per cento dopo essere più che raddoppiate nel 2010.

Con i suoi 400 milioni di utenti, Baidu ha quasi raggiunto Google, che in tutto il mondo ne ha 425 milioni. L’azienda è così sicura delle sue possibilità  di profitto che a luglio ha volontariamente ridotto i suoi ricavi accettando di non collegare più gli utenti ai siti occidentali da cui si può scaricare musica illegalmente, un’abitudine che in Cina è quasi una tradizione. Baidu ha firmato un accordo rivoluzionario con la Universal, la Warner e la Sony per offrire musica protetta da copyright sulla nuova piattaforma musicale Ting!, che in mandarino significa “ascolta”.

Baidu è la finestra della Cina su se stessa e sul mondo, l’arbitro ultimo della realtà , la fonte di verità  per un quarto del genere umano. E sta diventando importante come il Partito comunista, se non di più, perché le grandi masse si fidano di Baidu mentre brontolano senza sosta contro l’élite al potere. Baidu significa “centinaia di volte”, ed è un termine ripreso da una poesia della dinastia Song che parla della ricerca di una bellezza rara tra le folle brulicanti. Il suo logo è l’impronta di una zampa.

Tuttavia, come istituzione cinese de facto, anche se di proprietà  di privati e non dello stato (l’azienda è registrata alle isole Cayman), Baidu è obbligato dalla legge cinese a rispettare i parametri della sempre più severa censura governativa, assecondando la sua ossessione per la stabilità  e “l’armonia”. Le celebrazioni del novantesimo anniversario del Partito comunista, nel 2011, hanno obbligato i dirigenti delle principali aziende del paese – compreso Li – a riunirsi a Shanghai per intonare canti rivoluzionari e agitare bandiere rosse. Sembra che in quell’occasione Li abbia dichiarato: “Il socialismo con caratteristiche cinesi guida lo sviluppo del web cinese”. È difficile immaginare Mark Zuckerberg – che vorrebbe esportare Facebook in Cina, dove oggi è vietato – sottoporsi allo stesso rituale per ingraziarsi la leadership di Pechino.

I giornalisti cinesi che difendono i diritti dei consumatori qualche volta accusano Baidu non solo di collaborare con il partito, ma di vendere le prime pagine che appaiono nelle ricerche ad aziende statali e private, comprese alcune che vendono farmaci contraffatti (va detto che anche sui rapporti di Google con gli inserzionisti è in corso un’indagine del dipartimento di giustizia statunitense e della Commissione europea).

Ma le critiche all’integrità  del motore di ricerca non hanno intaccato la fiducia degli studenti che ho di fronte. Così passiamo da Google a Baidu e cerchiamo il termine Tiananmen. I ragazzi, chiaramente scettici su questi presunti massacri, accettano di usare le lettere latine perché Baidu funziona bene anche così. Quello che appare non ci stupisce: un elenco di 53 milioni di interessantissimi riferimenti storici e turistici, ma niente, a quanto è dato vedere, che riguardi uno sgradevole incidente accaduto nel 1989.

Più interessante notare che, quando scriviamo “Tiananmen” e “1989”, le centinaia di pagine che compaiono sullo schermo sono tutte in inglese o in un’altra lingua occidentale. A sorpresa, il primo link segnalato da Baidu porta a un articolo del Quotidiano del popolo, controllato dallo stato, dove al secondo paragrafo leggiamo che “le proteste dei sostenitori della democrazia sono finite quando centinaia di manifestanti sono stati uccisi da soldati del governo nelle strade adiacenti alla piazza”. Gli studenti, nessuno dei quali è abbastanza grande da ricordare il 1989, sono incuriositi ma ancora scettici perché i contenuti che stiamo trovando non sono in cinese. Quando proviamo ancora una volta, questa volta scrivendo “Tiananmen” in cinese, siamo accolti da un ammonimento in caratteri cinesi in grassetto che recita: “In base alle leggi, ai regolamenti e alle politiche pertinenti, alcuni risultati di questa ricerca non sono mostrati”.

Internet, e in particolare uno strumento per procurarsi informazioni come Baidu, rappresenta una grande sfida per il potere in Cina, nonostante i cinquantamila poliziotti che pattugliano le sue frontiere elettroniche. Questo era un paese dove l’autorità  parlava e l’opinione pubblica taceva. Non è più così. In quindici anni una realtà  dove quasi nessuno aveva il telefono è diventata una delle società  più connesse del mondo. Centinaia di milioni di persone, ventiquattr’ore su ventiquattro, chattano su Qq, il più diffuso servizio di messaggeria cinese, dal computer e dal cellulare. Si calcola che la Cina abbia 200 milioni di blogger che ogni giorno producono migliaia di miliardi di parole.

Eppure il livello di patriottismo e nazionalismo rimane così alto che, nonostante le lamentele sul governo e la burocrazia, perfino i dissidenti accettano qualche disagio – per esempio l’esclusione da oscure informazioni straniere su Baidu – come il prezzo da pagare per far parte del più grande paese del mondo. Possono comunicare e informarsi su milioni di argomenti, dall’amore agli affari, dai personaggi famosi alle ricette. Cosa importa se alcuni noiosi temi politici sono vietati perché stranamente disturbano le autorità .

Del resto, anche le masse – che rimangono per lo più all’oscuro della storia recente – sanno benissimo che grazie all’originale via cinese al comunismo la loro vita è infinitamente migliore di quella che sarebbe stata se la Cina fosse rimasta ferma al maoismo più rigido. O se non fossero mai diventati comunisti per rimanere feudali. Essere un cittadino cinese non è facile, ma per la grande maggioranza della popolazione è fantastico se paragonato a qualunque altro periodo della storia recente del paese. Il loro fidato amico Baidu, insieme a Qq e Sina Weibo (gli equivalenti cinesi di Twitter), e a Renren e Kaixin (le versioni cinesi di Facebook), rende la vita molto più divertente e piacevole. “Io amo Baidu”, confessa Lily al bar, mentre i suoi amici annuiscono in segno di assenso. “Se vuoi sapere qualcosa della Cina, perché dovresti chiederlo a uno straniero e fidarti di quello che dice lui? In Cina diciamo ‘Se vuoi sapere qualcosa, vai su Baidu’. Nessuno direbbe ‘Vai su Google’”.

Paradosso nazionalista
Una pubblicità  di Baidu di qualche anno fa, apparsa solo online, è rimasta nella mente di molti giovani utenti della rete. Mostra un goffo straniero bianco, che rappresenta Google, mentre cerca di conquistare una ragazza a un matrimonio ambientato ai tempi della dinastia Ming. Parla un cinese sgrammaticato con un pessimo accento, e non ottiene niente. Allora interviene un personaggio che rappresenta Tang Yin, un pittore e poeta dell’epoca, che corregge lo straniero e conquista la ragazza. Il messaggio è chiaro: ci vuole un motore di ricerca cinese per le ricerche cinesi.

Astrid Chang, una ragazza di Pechino iscritta a un master in antropologia all’Università  cinese di Hong Kong, ha individuato quello che definisce un “paradosso nazionalista” nei rapporti della diaspora con il web censurato della madrepatria. Perfino tra i cinesi che vivono all’estero da molto tempo, spiega, è ancora diffuso il desiderio di difendere Pechino dalle critiche straniere, anche tra quelli che si vergognano del loro governo e della recente storia del paese. “In Cina la libertà  di parola è un problema molto più serio della libertà  d’informazione”, sostiene Chang. “Se cerchi notizie che riguardano l’intrattenimento, oppure hai bisogno di aiuto per un compito di scuola o di una nuova custodia per l’iPhone, Baidu va benissimo. E se non sei soddisfatto esiste sempre un modo per scoprire la verità . Puoi usare Google”.

Secondo il direttore delle relazioni internazionali di Baidu, Kaiser Kuo, è raro che i cinesi cerchino informazioni sulla Cina da fonti straniere. Il dipartimento di stato americano nel maggio del 2011 ha promesso 19 milioni di dollari per aiutare i siti internet ad aggirare la censura in Cina, in Iran e in altri paesi, ma a detta di Kuo – che è nato negli Stati Uniti – l’iniziativa potrebbe infastidire i cittadini cinesi. “È arrogante questa convinzione che la verità  risieda fuori dalla Cina e che tutti muoiano dalla voglia di andarsene”, spiega. “La realtà  è che per la grande maggioranza delle persone non è un problema. Non gli interessa accedere ai siti stranieri più di quanto interessi agli inglesi leggere dei siti in portoghese. Per capire come funziona internet qui da noi bisogna saper tollerare la dissonanza cognitiva, cioè essere capaci di avere contemporaneamente in testa due cose contraddittorie. Ma è anche vero che in Cina internet è diventato un’arena pubblica dove le persone si scambiano idee sempre più critiche”.

La Cina è complicata e il suo firewall è molto più ingegnoso di come viene rappresentato. Prendiamo i cinquantamila esperti di informatica che pattugliano la rete. In realtà  questa cifra sottovaluta il numero di chi censura i contenuti, considerando che i provider di internet del paese sono tenuti a sorvegliare quello che compare in rete prima ancora che intervenga la polizia. Renren ha 500 addetti al controllo interni.

I limiti della censura
Baidu non è disposto a rivelare quanti ispettori abbia nella sua sede fuori Pechino, ma da un ex dipendente sinocanadese vengo a sapere che il motore di ricerca ha un sistema di censura automatico in grado di filtrare i termini segnalati, compresi i quasi omonimi e le versioni con i caratteri latini. Tutti i messaggi postati sul social network di Baidu finiscono in uno di questi tre gruppi: verde per i post che non contengono nulla di “disarmonico”, rosso per quelli censurabili, e giallo se c’è un’ambiguità , nel qual caso la decisione viene presa da un essere umano.

Solo una minuscola parte del tempo serve a filtrare i contenuti stranieri problematici: l’azienda si preoccupa molto di più di fermare il dibattito interno. Eppure i controllori cinesi sono destinati a soccombere davanti alla mole del loro lavoro. Ci sono più censori online pro capite che ispettori per la sicurezza alimentare incaricati di proteggere la popolazione dalla minaccia ben più grave del cibo contaminato. Ma, come sottolinea Kuo, “a essere controllata è solo una minima parte del traffico. È come il gioco del gatto e del topo, però su un campo grande come un continente dove ci sono una manciata di gatti e fantastilioni di topi, molti dei quali per giunta sono estremamente astuti”.

Per di più, nella burocrazia sono in corso lotte intestine su chi controlla cosa. Nella migliore delle ipotesi si può parlare di caos organizzato. Quest’anno il governo ha annunciato un nuovo corpo di polizia informatica per sorvegliare le 14 unità  governative che si occupano di controllare il settore, ma le sue competenze sono piuttosto vaghe. Il tentativo di controllare la rete è condannato al fallimento. Nel luglio del 2011, pochi minuti dopo lo scontro di due treni ad alta velocità  vicino a Wenzhou, nella Cina sudorientale, attraverso Qq e Weibo centinaia di migliaia di persone, alcuni dall’interno del treno deragliato, hanno soffocato l’inutile tentativo delle autorità  di ridimensionare l’entità  del disastro e hanno dato il via a un coro di proteste contro il governo. La richiesta di trasparenza sulle cause del disastro è stata così forte che nel giro di pochi giorni il premier Wen Jiabao si è recato sulla scena dell’incidente spiegando, cosa insolita per un leader cinese, che non aveva potuto farlo prima perché era stato poco bene.

Secondo l’ipotesi più diffusa, nella leadership c’è stato un disaccordo su come rispondere a un disastro che, a causa di internet e dei social network, non poteva più essere insabbiato. In un rapporto sui nuovi mezzi d’informazione pubblicato poco prima dell’incidente, l’Accademia cinese di scienze sociali aveva osservato che i microblog sono diventati una delle principali fonti d’informazione in grado di “scuotere l’opinione pubblica” e che questo rappresenta “un rischio per la sicurezza ideologica”.

Ma in Cina i censori della rete sono quasi tutti giovani ed è immaginabile che siano curiosi di conoscere la verità  dietro eventi che un tempo erano liquidati dai mezzi d’informazione ufficiali come “cose che capitano”. Anche nel settore privato è probabile che chi aiuta il governo a tenere sotto controllo la rete non sia disposto a tollerare la censura ancora a lungo. “Sono tipi in gamba, però lavorano in uno degli ambienti più sorvegliati del mondo”, mi ha spiegato il programmatore canadese parlando del periodo trascorso a Baidu.

“Non è la Corea del Nord e neppure l’Iran. Ma alle autorità  interessa solo che ognuno faccia il suo lavoro, e per chi non lo fa le conseguenze possono essere davvero tremende. Nessuno è così stupido da pensare che gli utenti preferiscano un internet disinfettato, filtrato. Vogliono contenuti non epurati e Baidu, per quanto è possibile, gli vuole offrire questa esperienza. Probabilmente significa che interpretano liberamente le restrizioni ufficiali. Di certo nessuno vuole essere uno strumento di oppressione”.

Traduzione di Giuseppina Cavallo.

Internazionale, numero 931, 13 gennaio 2012


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