Incontri a Amman L’ennesimo nulla di fatto
Ashton ha incontrato ieri nella capitale giordana il presidente dell’Anp Abu Mazen con l’intento di convincerlo a proseguire gli incontri con gli israeliani. Da parte sua Abu Mazen ripete che l’Anp e l’Olp rifiuteranno altri incontri fino a quando Israele non accetterà di discutere di confini e non interromperà subito l’espansione delle colonie ebraiche nei Territori occupati palestinesi. Ma dietro le quinte questa posizione è meno inflessibile. Lo scorso dicembre il leader dell’Anp escludeva una ripresa dei colloqui senza l’accoglimento delle richieste palestinesi. Poi il 3 gennaio ha accettato il tavolo di discussione giordano. «Stiamo valutando quello che è avvenuto ad Amman in queste ultime settimane, noi e il Quartetto (Usa, Russia Onu e Ue) studieremo la situazione al fine di prendere la giusta decisione», ha spiegato ieri Nabil Abu Rudeina, portavoce dell’Anp, lasciando così socchiusa la porta al proseguimento del dialogo. A quanto pare Abu Mazen intende affidarsi il prossimo 4 febbraio di nuovo al «parere» della Lega araba che in passato lo ha sempre «autorizzato» spinto a continuare i colloqui con Israele.
Da Amman sono giunte ben poche informazioni sui contenuti dei colloqui. L’ex ministro degli esteri dell’Anp Nabil Shaath, ha riferito che Israele ha messo sul tavolo una proposta di 21 punti che Abu Mazen ha respinto perché fondata su questioni secondarie rispetto ai nodi veri da affrontare subito: colonie israeliane, confini, Gerusalemme, risorse idriche e profughi palestinesi. Ma queste intenzioni, vere o presunte, di Abu Mazen di riprendere le trattative, si scontrano con il malumore crescente in Cisgiordania per la linea poco chiara, ai limiti dell’ambiguità , che sta tenendo l’Anp, soggetta a fortissime pressioni europee e americane. Un nuovo movimento politico slegato dai partiti, «Dignità per i palestinesi», nei giorni scorsi ha tenuto sit-in permanenti di fronte al quartier-generale dell’Anp a Ramallah contro «un dialogo che non tratta le questioni fondamentali per l’indipendenza della Palestina: profughii, Gerusalemme, prigionieri politici, colonie».
La questione dei prigionieri politici è tornata di nuovo in primo piano dopo l’arresto da parte dell’Esercito israeliano dello speaker del parlamento palestinese Aziz Dweik di Hamas – condannato a sei mesi di carcere «amministrativo», nessuna accusa e nessun processo – e di altri tre esponenti del movimento islamico: l’avvocato Abdul Jabbar Fuqaha e i due parlamentari Khaled Abu Arfa e Mohammed Totah (presi all’interno della sede della Croce rossa di Gerusalemme dove si erano erano rifugiati nell’estate del 2010 perché minacciati di espulsione da parte di Israele). Sono ora 27 i parlamentari palestinesi in prigione.
Invita a serrare i ranghi e ad avviare una resistenza popolare e pacifica nei confronti di Israele, il leader di Fatah Marwan Barghouti, in carcere in Israele da dieci anni. Portato due giorni fa in tribunale per testimoniare in un processo, Barghouti ha ribadito che non ci sarà pace in Medio Oriente fino a quando Israele non si ritirerà dai territori che ha occupato nel 1967 (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est) e verrà fondato uno Stato palestinese indipendente. Barghouti ha quindi esortato Fatah e Hamas a riconciliarsi al più presto nell’interesse del popolo palestinese.
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