l’Accesso Impossibile a Internet per Quattro Famiglie su Dieci

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Lo stato di salute del rapporto tra noi cittadini e la pubblica amministrazione è ricco di statistiche e alcune sono sorprendenti. La transizione verso il digitale in Italia è al palo? Tutt’altro. Se si va a prendere la percentuale di servizi pubblici di base interamente disponibili online — la fonte è la Commissione europea — l’Italia raggiunge il 100%, saldamente davanti alla Germania (90,9), Francia (83,3) e Unione Europea a 27 (80,9). Anche la tanto osannata Finlandia è ora sotto di noi. La crescita è stata esponenziale. Solo a metà  del 2009 eravamo al 55,6% e dovevamo guardare in alto per subire l’ironia degli altri Paesi europei. Per inciso, è interessante osservare che anche la Spagna ha subito un’accelerazione fermandosi però al 91,7%. Dovendo riconoscere a Cesare quel che è di Cesare quella curva esponenziale ha un nome: Renato Brunetta, il ministro della Pubblica amministrazione del governo Berlusconi. Il suo progetto di digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha ottenuto deirisultati che sulla carta sono ottimi. Ora il decreto legge sulle Semplificazioni, nel capitolo in cui implementa la cosiddetta Agenda digitale, ha dato un’ulteriore spinta a questo processo con 7 milioni di documenti e certificati che verranno forniti «solo» online. È la prima fase di quella che Stefano Parisi, alla guida della neonata Confindustria digitale, ha definito sul Corriere come switch off dello stato analogico. Una strategia condivisibile anche per Francesco Sacco dell’Università  Bocconi che, insieme a Stefano Quintarelli, è stato uno dei promotori del manifesto per l’Agenda digitale in Italia. 
Ma allora la domanda spontanea è: come mai l’e-government italiano non fa scuola? Se ci si sposta sulla percentuale di cittadini che negli ultimi 3 mesi ha inviato o ricevuto un documento della pubblica amministrazione online si scopre che rifiniamo in fondo alla classifica: 10,7% contro il 19,3 dell’Unione, il 21,2 della Francia e il 32,3 della Finlandia. Addirittura tra il 2008 e il 2010 siamo peggiorati di quasi due punti percentuali. Nel 2006 eravamo al 13,7%. Da una parte una crescita esponenziale, dall’altra un trend negativo: il nodo da sciogliere inizia a intravedersi. E per definirne meglio i contorni vale la pena di incrociare i numeri della Commissione con i dati Eurostat del dicembre 2011 sulle case con un accesso a Internet: 62% in Italia, contro l’83 della Germania, il 76 della Francia, l’85 della Gran Bretagna, l’84 della Finlandia e il 91 della Svezia. In soldoni: 4 famiglie su dieci in Italia non hanno fisicamente la possibilità  di collegarsi al web tramite rete fissa. Peggio: il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata alla rete né fissa né mobile. Solo un inglese su dieci non ha mai sperimentato una pagina web in qualunque sua forma. Siamo degli emarginati digitali. E questi due ultimi dati ci dicono che un po’ è analfabetismo e un bel po’ assenza di infrastrutture. 
In Italia è come se avessimo costruito tutti i caselli ma non ci fosse ancora l’autostrada (e, anzi, talvolta si spaccia per autostrada una semplice statale). Come faranno a ritirare i certificati coloro che non hanno accesso al web? Il digital divide non può essere nascosto sotto un tappeto. E forse varrebbe la pena di pensare a una sorta di incentivo per chi si allaccia alla rete dopo averne dati per cambiare l’automobile e gli elettrodomestici. 
Il tema delle infrastrutture è caldo, anzi caldissimo tra le società  di telecomunicazioni. E authority di settore e ministeri ci hanno sbattuto già  la testa. Il tavolo dell’ex ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, sulla rete di nuova generazione non ha sortito effetti. La litigiosità  degli operatori sul tema (Telecom Italia, Vodafone, Wind, Fastweb e Tiscali) anzi è aumentata. Permettendo a tutti di uscire sbattendo la porta. Forse è per questo che il governo con il decreto sulle Semplificazioni e il ministro dello Sviluppo Corrado Passera (che ha anche la delega sulle infrastrutture) hanno optato per la «cabina di regia», cioè un coordinamento degli interventi, senza però fare cenno alla patata bollente della rete. «L’assenza di una strategia per le infrastrutture allo stato attuale è l’anello mancante. Bisognerà  attendere l’attuazione della cabina di regia per vedere come si vorrà  procedere», concorda Sacco, il cui nome era emerso tra quello dei possibili candidati alla poltrona di sottosegretario con delega al digitale. 
Intanto la banda larga e ultra larga in Italia resta un miraggio. Il piano di Francesco Caio che, richiesto dal governo Berlusconi, era stato presentato già  nel febbraio del 2009, è finito in un cassetto, nonostante contenesse anche interventi a costo zero. Le regole sulla nuova rete in fibra ottica dell’Agenzia garante per le comunicazioni guidata da Corrado Calabrò sono state pubblicate da pochi giorni. Ma si è ben lontani dal capire chi dovrà  costruire e quando. Intanto il cronometro europeo avanza. E l’e-government è solo uno degli obiettivi europei. Abbiamo un altro anno per collegare a banda larga tutti e siamo ancora al 52%. Il target è già  sfumato. 
Entro il 2020, poi, ognuno dovrà  poter accedere a una banda a 30 megabyte al secondo, mentre metà  delle famiglie dovrà  poter avere un abbonamento a 100 megabyte. Entro il 2015 metà  della popolazione europea dovrebbe fare abitualmente shopping online. E la possibilità  per noi di restare confinati nell’altro 50% è alta: nel 2011 solo 27 italiani su 100 hanno ordinato beni sul web (contro 67 della Francia, 77 della Germania e 82 della Gran Bretagna). Duro da digerire: ma ora che non ci sono più i vecchi «Paesi in via di sviluppo», trasformatisi in economie in crescita, chi non centrerà  gli obiettivi farà  parte della nuova serie B: quella dei Paesi in via di sviluppo digitale.


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