Paralizzato dai guerriglieri “E di me se ne fregano tutti”

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La Coppa d’Africa maledetta, quella che non ha mai giocato, è scritta tutta lì, sulla sua gamba destra. Non si muove, non la comanda più. E un calciatore che vive sulle stampelle non è più un calciatore. «Ho sognato l’attentato ogni notte e ho ancora dolore, tutti i giorni». A 27 anni Kodjovi Obilalé è un ex portiere. Ha chiuso la sua carriera un proiettile che si è infilato nella vertebra, ed è arrivato al midollo. È cominciata così, nel 2010, la scorsa edizione della coppa: appena entrato in Angola, la mattina dell’8 gennaio, il pullman della nazionale del Togo viene assaltato. «Venti minuti di inferno. Mi colpirono ai reni e all’addome con raffiche di mitra, ma non ho mai pensato che sarei morto: sapevo che non era ancora arrivata la mia ora». A scatenare la sparatoria gli indipendentisti della provincia di Cabinda, la zona in cui il Togo stava andando a giocare il suo girone. Muoiono l’autista, l’aiuto allenatore, l’addetto stampa. Emmanuel Adebayor, la stella della squadra, se la cava con un grande spavento. Obilalé è il ferito più grave, nelle prime ore si diffonde addirittura la notizia della sua morte. Comincia invece un lungo percorso di riabilitazione. In Sudafrica, dove è rimasto due mesi dopo essere stato operato a Johannesburg, e poi in una clinica specializzata di Lorient, in Bretagna, cittadina dove vive oggi. Fino a qualche tempo fa, nelle interviste, gli chiedevano quando sarebbe tornato in campo: «Se lavorerò bene ce la farò, sono sicuro». 
Mese dopo mese, Kodjovi ha smesso di aspettare il giorno in cui avrebbe buttato via le stampelle. Ha capito che non sarebbe arrivato: una gamba recuperava, l’altra no. Difficile da accettare, difficile far capire ai suoi due bambini, di 9 e 3 anni, che tutto faceva parte del passato. La nazionale conquistata nel 2006, la convocazione al Mondiale di Germania, i viaggi per le qualificazioni, la speranza di strappare il posto da titolare. I campetti della quarta divisone in Francia, al Pontivy, e il sogno di fare il salto in Ligue 1. Di quella vita non è rimasto nulla. «Se esci dal giro conservi pochi contatti, i calciatori frequentano solo i calciatori. E io non sono più uno di loro. A ferirmi è la mancanza di considerazione. Anche la Federazione se ne frega, se ne fregano tutti», racconta a L’Equipe. Il quotidiano francese gli ha dedicato un reportage di due pagine: magari “Kodjo” lo aveva sempre sognato. Ma certo non per raccontare le sue giornate a Lorient tra tv, Facebook e lunghe chiacchierate con i ragazzi della drogheria africana di fronte alla stazione, i suoi nuovi amici. E, naturalmente, le ore passate nel centro di riabilitazione. Persa la speranza del campo, lì ha scoperto altro: «Il valore della vita. Stavo con persone che soffrivano molto più di me, amputati, tetraplegici. Ho capito che anche potersi alzare, guidare, è una fortuna». Le cure però costano tanto. E Obilalé non ha più un lavoro. Dall’Angola, paese organizzatore di quella coppa, non è arrivato nulla. Dal Togo la Federazione ha mandato un mazzo di fiori, il governo 50.000 euro. Centomila ne sono arrivati dalla Fifa, tutti spesi per terapie e operazioni, e qualche migliaio da Federazione e Lega calcio francesi. Due azioni legali sono in corso, una in Francia e l’altra in Angola. Non solo per i soldi dell’assicurazione, ma perché venga riconosciuta la sua condizione di vittima. Le richieste di Obilalé rischiano di perdersi tra le ramificazioni della burocrazia calcistica: l’associazione calciatori francese ha fornito un avvocato, ma complica le cose il fatto che Kodjovi in Francia non giocava tra i professionisti e per di più quando ha avuto l’incidente era con la maglia del Togo. 
Nel frattempo, bisogna immaginare un futuro. Trovare un lavoro, fare colloqui. Scrivere nuove pagine, non solo in senso metaforico. Da un po’ Kodjovi si siede al computer e ricorda l’attentato, ma anche «come sono cresciuto in Africa e quando sono partito, a sedici anni, per andare in Francia a giocare. Tiro fuori tante cose». Perché la sua storia non è finita in quel pullman. Prima, e soprattutto dopo, con molta fatica, c’è tutto un mondo ancora da raccontare.


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