“Io, torturato per depistare su via d’Amelio”

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PALERMO – Quello che era considerato il testimone più importante della strage Borsellino comincia così il suo racconto: «Io non sapevo neanche dov’era via D’Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame».
Il balordo di borgata è diventato “superpentito” sotto sevizie di poliziotti, depistando l’indagine su uno dei grandi misteri d’Italia. È la verità  di Vincenzo Scarantino, palermitano “malacarne” senza quarti di nobiltà  mafiosa, una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti sulla revisione del processo per l’attentato di via Mariano D’Amelio.
Da ciò che denuncia viene descritta una Guantanamo prima di Guantanamo qui in Italia, crudeltà  e violenze per far confessare retroscena di massacri mai compiuti. Dopo tanti anni s’indaga ancora su quelle torture ma non c’è certezza sui personaggi implicati, da una parte le confessioni di un pentito costruito sicuramente “a tavolino” e dall’altra la difesa di poliziotti che negano tutto.
È in un drammatico interrogatorio del 28 settembre 2009 che Vincenzo Scarantino, per la prima volta, spiega perché è stato costretto ad autoaccusarsi della strage Borsellino: «Per non farmi mangiare, mi facevano trovare mosche nella pasta, una volta a Pianosa sentì due guardie che parlavano… un tipo con i baffi, un brigadiere siciliano, diceva all’altro: “Piscia, piscia”. Una volta, quel brigadiere mi alzò pure le mani. Un’altra volta, dopo che andai dal dentista, mi fecero credere che avevo l’Aids, mentre si trattava di una semplice epatite».
Poi entra in scena Arnaldo La Barbera, il poliziotto che con decreto della Presidenza del Consiglio è stato messo capo del “Gruppo Falcone Borsellino”, la struttura investigativa che indagava sulle stragi. È ancora Scarantino che parla: «E lui mi disse: “Tu devi confessare”. Ma io gli ripetevo: “Non so niente”. Lui insisteva: “Tu devi diventare come Buscetta, importante come Buscetta. E allora, poco a poco, io sono entrato nel personaggio, cominciavo ad accusare tutti. Avevo 27 anni, stavo male. La Barbera mi disse: “Ti diamo 200 milioni, esci dal carcere e non ci entri più”…».
Il balordo di borgata ha cominciato a fare nomi: «Mi venivano suggeriti, non è che me li dicevano in modo esplicito. Si parlava e mi dicevano: “Ma questo c’era, ma quest’altro c’era pure?”. Il dottore La Barbera mi faceva capire…. E così m’inventai la storia di una riunione, volevano trovare i colpevoli attraverso me. E io glieli ripetevo».
Iniziano gli interrogatori con i magistrati. E Scarantino viene “preparato” dai poliziotti: «Prima di ogni incontro vedevo La Barbera, quando poi arrivavamo i magistrati non riuscivo mai a ritrattare». Iniziano le udienze del processo per la strage di via D’Amelio: «Prima, un certo Michele leggeva i miei verbali, e io li mettevo in memoria.. Ma io ci stavo male, speravo sempre che potesse uscire un pentito che mi smentiva».
Un giorno Scarantino vuole dire la verità . È il 1995. Ma non ce la fa: «Arrivò il dottore Bo. Gli dissi: io voglio tornare in carcere. Il rimorso mi stava mangiando il cervello. Non riuscivo a stare tranquillo. Il dottore Bo mi disse: “Va bene ti portiamo in carcere”. Iniziò una discussione. Un poliziotto che era con lui mi acchiappa per il collo e mi punta la pistola addosso. Gli altri poliziotti che erano là  gli dicevano: no, queste cose no davanti ai bambini».
L’inchiesta dei procuratori di Caltanissetta che indagano sull’uccisione di Paolo Borsellino – il capo Sergio Lari, Domenico Gozzo, Amedeo Bertone, Nicolò Marino e Stefano Luciani – ha concentrato tutti i sospetti del depistaggio su Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 per un tumore al cervello. Ma insieme a lui, sotto accusa per calunnia ci sono oggi anche tre funzionari, ragazzi al tempo, appena usciti dalla scuola di polizia: Mario Bo, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi. Tutti esecutori di ordini, poliziotti che non potevano fare un solo passo senza l’autorizzazione del loro capo.
Per i pubblici ministeri non è ancora chiaro il ruolo che avrebbero avuto i tre (loro smentiscono ogni circostanza riferita da Scarantino) e fino ad ora le investigazioni «non hanno consentito di trovare sufficienti elementi di riscontro alle accuse formulate nei loro confronti dagli ex collaboratori». L’inchiesta però non è chiusa. Ad aprile i magistrati decideranno se archiviare o chiedere per i tre poliziotti il rinvio a giudizio.
Il resto delle carte sulla strage di via D’Amelio un paio di mesi fa sono state trasmesse per la revisione del processo alla Corte di Appello di Catania e sette imputati, in carcere dal 1993 per le false accuse di Scarantino, sono stati scarcerati. Dentro l’indagine di Caltanissetta non c’è solo la testimonianza del balordo della Guadagna ma anche quelle di due suoi amici, Salvatore Candura e Francesca Andriotta. È lo stesso copione. Pressioni, minacce, sevizie. Uno di loro – Andriotta – racconta anche di violenze subite dagli agenti penitenziari: «Mi fecero una perquisizione, intorno alle tre e mezza del mattino. Mi hanno fatto uscire nudo all’aria. Qualcuno mi ha messo un cappio e diceva: tu devi collaborare… Voglio pagare la mia pena. Però da vivo, non da morto».


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