Quegli “amabili resti” nel cimitero dei mai nati

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Chi ha avuto un aborto spontaneo, terapeutico o anche un aborto volontario ha, se ne sente il bisogno, un luogo dove seppellire i resti. Se ne è parlato tanto. Il campo è stato chiamato “Il giardino degli angeli”: due statue, due grandi angeli bianchi, sono state collocate al suo interno e il prato è seminato a gigli. Simili campi sono sorti in varie città  italiane, per l’impegno delle amministrazioni di centro destra e con il plauso della chiesa, provocando scie di polemiche. C’è un ché di pesante, connotato, oppressivo nella forma che questi cimiteri hanno preso, e molto spesso anche nelle intenzioni di chi li istituisce, ma c’è una serietà  nella sensibilità  che muove coloro, donne prima di tutto, che provano il bisogno di un luogo concreto per preservare la memoria dei resti di un corpo e di un’esperienza.

Certo, c’era bisogno di meno enfasi, di più delicatezza. Se davvero il campo, e l’attenzione dell’amministrazione comunale, fossero nati con semplicità  dall’ascolto, avere cura di escludere simboli culturalmente connotati, simboli di alcuni e non di altri, sarebbe stato naturale. C’è sempre qualcosa di sgradevole nell’attribuzione forzata dell’universalità  a sistemi di segni che non sono universali ma parziali, qualcosa di coloniale e dozzinale insieme: si azzera la complessità  di un segno con l’illusione che questo basti a renderlo merce più largamente vendibile. Più per l’uso disinvolto dei simboli che il fatto stesso della sua istituzione, Il giardino degli angeli si dichiara non inclusivo, non aperto, un orto chiuso, o peggio, una fortezza, che esclude in partenza tutte coloro e tutti coloro che non riescono ad accettare come ovvia l’associazione tra gli angeli e i non nati. Se questo è vero per quel che riguarda la forma che ha preso il cimitero, per l’enfasi con cui è stato promosso, per l’uso politico della sua istituzione, tutta diversa, a mio avviso, è la questione della sensibilità  e del bisogno.

La sensibilità  merita rispetto e la libertà  è la forma reale del rispetto. Non c’è nessun motivo, nessuna giustificazione teorica, nessuna opportunità  politica, nessuna sensibilità , che possa essere invocata per impedire a una donna che ha sentito un corpo crescere nel suo corpo, che se l’è portato dietro anche solo per qualche mese, che l’ha nutrito, che l’ha immaginato, di scegliere, se crede, di preservarne le spoglie in qualche forma, qualora il suo sviluppo, in qualunque momento della gravidanza, venga interrotto. Che lo voglia inumare o cremare e tenere in una urna sul comodino accanto al letto, la sua scelta non lede alcun diritto. Se ricordo con quale apprensione e quale concentrazione sono restata per mesi a letto, a iniettarmi grandi dosi di progesterone sperando che bastasse, per evitare che si aprisse il distacco alla placenta, per evitare che quella forma animata di dodici centimetri, che dopo mesi ho potuto riconoscere pubblicamente per mia figlia, se ne andasse via con il liquido amniotico, anche se io forse non l’avrei seppellita, avrei avvertito troppo pesante, dolorosissima, la monumentalizzazione della sua perdita, tuttavia non trovo che ci sia niente di strano nel bisogno di preservare fisicamente il ricordo di un breve, fugace incontro, la memoria di un’esperienza così potente. L’obiezione di chi dice che i feti non sono altro che materiale biologico di scarto e che dare sepoltura a materiali di scarto non ha senso, mi sembra inconsistente. Nel caso si tratti di una presa d’atto, non aiuta.

A rigore, esaurite le nostre funzioni vitali, siamo materiali di scarto tutti, nati e non nati, uomini e bestie. Oggi ci sono delle leggi che impongono di inumare o di cremare i morti, ma quando l’umanità  ha cominciato a riconoscersi per tale, è stata la sensibilità , un desiderio di preservazione, l’investimento sulla memoria, a fare dei corpi umani una cosa diversa dai rifiuti, un resto a cui fornire un destino speciale, un resto degno di cura, di invocazione e tenerezza. Se invece si intende dichiarare un dover essere, sostenere che i non nati debbano essere considerati materiali di scarto, quello che si innesca è un movimento autoritario: la posizione arbitraria di un dato di realtà  e l’auspicio che tutti d’obbligo debbano riconoscerlo per tale e sottostarvi (più o meno così: noi pensiamo che i feti abortiti siano materiale di scarto, perciò sono materiali di scarto e dunque nessuno deve seppellirli) che possiamo solo augurarci che sia impotente, perché non c’è autorità  legittima che possa permettersi di negare una sensibilità  che chiede solo di esprimersi e non lede diritti, fosse anche la sensibilità  di tre o quattro persone, e non credo che siano così poche. È un meccanismo mentale, questo, che mi auguro che si dissolva come neve al primo tepore della ragione, sia che l’abbiano prodotto in quello che latamente considero il mio campo sia che venga prodotto in campo avverso. Si può discutere se è giusto che un’amministrazione comunale investa del suo per attrezzare un cimitero per le spoglie dei feti abortiti.

Non mi turberei di fronte all’istituzione che lo facesse trovando modi e toni diversi. Trovo grave la volontà  di armare sensibilità  e dolore contro sensibilità  e dolore, guerre scatenate su ferite così profonde, come niente diventano disumane e cieche, facilmente ci si irrigidisce su posizioni senza aria, senza articolazione, senza intelligenza. Bisognerebbe piuttosto cercare guadi – costruire ponti è troppo -, provare a scendere pietra dopo pietra fino al centro del fiume che divide le storie, le sensibilità  e le esperienze, per provare a parlarsi con un tono pacato attutito dal suono dell’acqua.


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