Scintille tra governo e polizia. E tra divise

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La patata bollente delle carceri piomba sui nervi tesi delle forze dell’ordine e porta scompiglio tra le divise. Alta tensione tra agenti penitenziari e poliziotti «di strada», e scintille sopra la norma anche tra governo e corpi di polizia. Le disposizioni della Guardasigilli Paola Severino riguardanti l’uso delle celle di sicurezza al posto del carcere per gli arrestati in flagranza di reato, contenute nel decreto legge giunto ieri in commissione Giustizia del Senato per l’avvio dell’iter di approvazione, innestano polemiche a catena. Tanto da costringere prima la stessa ministra di Giustizia poi la titolare del Viminale, Annamaria Cancellieri, a intervenire per puntualizzare che le norme contenute nel cosiddetto decreto legge svuotacarceri «sono state concordate con gli stessi vertici delle forze di polizia». Disposizioni che, a dire il vero, non fanno che legalizzare la prassi ormai normalmente seguita dopo un arresto che di fatto elude l’articolo 558 del Codice di procedura penale, in vigore già  dal 1989, secondo il quale le forze dell’ordine dovrebbero custodire in caserma la persona arrestata fino all’udienza di convalida.
Ma partiamo dalla polemica innescata ieri mattina dalle parole del prefetto Francesco Cirillo, capo della Polizia criminale, in audizione davanti ai senatori della commissione Giustizia nella veste di vice direttore generale della Pubblica sicurezza, quindi anche a nome dei Carabinieri. Camere di sicurezza in attesa del processo per direttissima per evitare il passaggio di migliaia di detenuti in carcere solo per pochi giorni (20 mila l’anno per meno di 7 giorni, secondo le ultime stime)? «Faremo fino in fondo il nostro dovere, ma…». Le obiezioni di Cirillo sono le stesse già  sollevate da agenti, militari e vigili urbani da quando, il 22 dicembre 2012, la norma è diventata legge vigente (ma mai applicata). Il prefetto spiega che le celle a disposizione delle varie forze dell’ordine sono troppo poche e inadeguate per ospitare l’arrestato, sia pure per sole 48 ore, in attesa dei comparire davanti al giudice. «Delle complessive 1057 camere di sicurezza – spiega – 658 sono a disposizione dei carabinieri, 327 della polizia e 72 della Guardia di finanza, ma tutte sono inadeguate per garantire dignità  al detenuto: non ci sono servizi igienici, non c’è separazione tra uomini e donne e non sono organizzate in modo da consentire l’ora d’aria». E non sono nemmeno ispezionabili da parlamentari e istituzioni preposte, come lo sono invece le carceri, con la conseguenza di non poter garantire la trasparenza necessaria alla sicurezza personale del detenuto. Ma questo, ovviamente, il capo della Polizia criminale non lo dice. 
Di adeguare le camere di sicurezza ai requisiti minimi richiesti non se ne parla nemmeno, costerebbe troppo, dice: «A Torino per ristrutturarne cinque sono stati spesi 450 mila euro; e poi occorrerebbero maggiori stanziamenti per vitto e pulizia, visto che i fondi l’anno scorso si sono fermati a 300 mila euro». C’è poi il problema della professionalità  – «non siamo né addestrati né organizzati per questo tipo di lavoro: polizia e carabinieri nascono per agire sulle strade», dice – e dell’organico (107.000 poliziotti e 114.000 carabinieri) «fermo al 1989». Insomma, «i detenuti stanno meglio nelle carceri», conclude facendo immediatamente infuriare i sindacati penitenziari. «Evidentemente non ha conoscenza diretta della grave emergenza carceraria, peraltro decretata da due anni dal governo», ribatte piccato il segretario del Sappe, Donato Capece. E non è l’unico, tra gli operatori penitenziari, mentre invece è generale il plauso da parte delle forze di polizia alle parole di Cirillo che parla anche del braccialetto elettronico tirandone un bilancio assolutamente negativo: solo 8 quelli attivi dei due mila disponibili per 41 mila persone in detenzione domiciliare. E al costo di cinque mila euro l’uno: «Se fossimo andati da Bulgari avremmo speso meno», è la battuta di Cirillo. 
In realtà  -tornado alle celle di sicurezza -il testo del decreto legge in vigore dal 22 dicembre scorso dispone che l’arrestato venga custodito, sì, presso le camere di sicurezza del circondario ma il magistrato può comunque disporre il trasferimento in carcere se gli stessi ufficiali o agenti di polizia lo richiedono adducendo come motivo la «pericolosità  della persona arrestata o l’incompatibilità  della stessa con la permanenza nelle camere di sicurezza». In sostanza, dunque, non cambia nulla con l’attuale stato dello cose: «Il codice di procedura penale in effetti imporrebbe di trattenere nelle celle presso le questure o le caserme l’arrestato fino all’udienza di convalida – spiega Enzo Letizia, segretario dell’Associazione funzionari di polizia (Anfp) – ma nel tempo i magistrati hanno capito che è una norma impossibile da applicare proprio per l’inadeguatezza delle strutture e del personale». Quindi ormai il trasferimento in carcere è quasi automatico. Con la norma Severino, dunque, non si fa che legalizzare la prassi vigente. Un’altra disposizione del decreto legge che dovrebbe arrivare in Aula, emendato dalla commissione, il 17 gennaio prossimo, tenta invece di risolvere il problema delle traduzioni dal carcere che impegna troppi uomini e mezzi, in tempi di magra come questi, e che si può evitare imponendo invece al magistrato – come fa il decreto Severino – di interrogare o tenere udienza nel luogo di detenzione dell’arrestato.


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