Se riparte il gigante Usa

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PIà™ 200.000 posti di lavoro, al netto dei licenziamenti, nel solo mese di dicembre. Il tasso di disoccupazione scende all’8,5%, il livello minimo da tre anni. L’America comincia a credere nella sua ripresa, la percepisce sul terreno che conta di più: la creazione di lavoro. E dietro i dati mensili s’intravvede una tendenza strutturale. È un’inversione rispetto a fenomeni ultradecennali: a sorpresa, l’economia più ricca del mondo riscopre una vocazione manifatturiera. È un inizio di re-industrializzazione, dopo decenni di delocalizzazioni nei Paesi emergenti. Il revival americano accentua il contrasto con l’eurozona che si avvia a ricadere in recessione. Il 2012 si apre all’insegna di una netta divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico.
Per Barack Obama il calo dei disoccupati è una buona notizia, che può influire sulle sue chance di rielezione a novembre. Il dato di dicembre viene a confermare una serie di indicazioni positive: ormai l’economia americana ha “infilato” una serie di 22 mesi consecutivi in cui le assunzioni hanno superato i licenziamenti. Dal febbraio 2010, la creazione netta di posti di lavoro raggiunge 2,5 milioni. Negli ultimi 12 mesi il settore privato ha effettuato 1,9 milioni di assunzioni aggiuntive, il massimo da un quinquennio. Migliorano anche la fiducia dei consumatori americani e delle imprese. Obama però è attento a evitare i trionfalismi. Ieri la reazione ufficiale della Casa Bianca è stata misurata, quasi “scaramantica”: «C’è bisogno di una crescita ancora più forte, con più creazione di lavoro, per riassorbire tutti coloro che hanno perso il posto durante la crisi e anche le nuove generazioni che arrivano sul mercato del lavoro».
Questo presidente ricorda che per ben due volte c’è stata una “falsa partenza”. Sia all’inizio del 2010 che all’inizio del 2011 sembrò che fosse iniziata la ripresa. In ambedue i casi la festa fu guastata dall’eurozona; improvvisi accessi di sfiducia dei mercati finanziari verso i debiti sovrani di alcune nazioni europee “gelarono” gli investimenti anche in altre aree del mondo. Obama sa che la crisi dell’eurozona è pronta ad avvitarsi nuovamente su se stessa. Un’altra ragione di prudenza è domestica. Non ci sarà  una crescita durevole se non ripartono i consumi: le spese delle famiglie americane rappresentano il 70% del Pil di questo Paese e il 15% dell’intero Pil mondiale. Ora, come si è visto durante le feste di fine anno, i consumatori sono diventati molto più prudenti che in passato. Gli acquisti natalizi hanno avuto un andamento moderatamente positivo (+3,4% rispetto al dicembre 2010), grazie però alle campagne di sconti, promozioni e liquidazioni che hanno inciso pesantemente sui profitti della grande distribuzione. La capacità  di ipermercati e grandi magazzini di reagire alla crisi con prezzi stracciati, è una flessibilità  tipica del capitalismo concorrenziale degli Stati Uniti. Indica tuttavia che il consumatore è ancora “scottato” dalla grande recessione, ce ne vuole per riportarlo a spendere.
Più incoraggiante è il cambiamento strutturale che riguarda l’industria. Il settore manifatturiero è l’unico ad avere generato nuova occupazione netta (cioè il saldo tra assunzioni e licenziamenti) per oltre due anni di fila. Per la precisione: 27 mesi consecutivi. L’industria ha continuato ad assumere anche quando le banche hanno ripreso a licenziare. L’industria ha compensato perfino i licenziamenti del settore pubblico, quando municipalità  e singoli Stati Usa hanno curato il deficit riducendo il numero dei dipendenti. Rispetto al minimo storico del febbraio 2010, l’occupazione nell’industria è risalita di 302.000 unità . 
A seconda di come si misuri la produzione manifatturiera, quella degli Stati Uniti è la prima o la seconda del mondo. Questi dati sono in contrasto con le profezie di una ineluttabile deindustrializzazione, sospinta da due fenomeni inesorabili come la globalizzazione e l’automazione. Per esprimere quel “buonsenso convenzionale” era in voga questa battuta: «Ben presto qualsiasi fabbrica americana avrà  bisogno solo di impiegare un uomo e un cane. L’uomo dà  da mangiare al cane, il cane impedisce all’uomo di avvicinarsi ai macchinari». Non sta andando così. Anche sul fronte delle esportazioni, non mancano le sorprese. Sui mercati mondiali il made in Usa sembrava condannato a un declino irreversibile nei confronti di nuove potenze manifatturiere come Cina e India, mète della delocalizzazione da parte delle stesse multinazionali americane. Invece nel 2010 gli Stati Uniti hanno tolto alla Germania il secondo posto mondiale per l’export, piazzandosi subito dietro la Cina. Per il 2011 non ci sono ancora i dati definitivi, ma l’America è ben piazzata per confermarsi il numero due mondiale. E’ un exploit tanto più significativo, in quanto gli Stati Uniti non hanno un modello di sviluppo “trainato dalle esportazioni” (a differenza di Cina e Germania), quindi la gran parte della loro produzione manifatturiera viene assorbita dal mercato domestico. L’anno scorso il valore delle esportazioni americane è tornato sopra la soglia dei mille miliardi di dollari annui, contribuendo all’occupazione di quasi 12 milioni di lavoratori nel settore manifatturiero. 
La riscoperta di una vocazione a “produrre cose” è un fenomeno complicato, sospinto da diverse forze. Da un lato ci sono settori dell’industria americana che hanno seguito una “ricetta tedesca”: più ricerca, innovazione, investimenti nella tecnologia e nella qualità , nella formazione e nell’alta professionalità . Questo spiega perché le punte avanzate dell’export made in Usa sono nelle macchine utensili e nella robotica, nella chimica fine, nell’aerospaziale. All’estremo opposto ci sono settori che invece hanno spinto al massimo sulla compressione dei costi, ivi compresa l’austerità  salariale: tipico il caso dell’automobile, con il doppio regime salariale adottato dopo la bancarotta di Gm e Chrysler, per cui i nuovi assunti accettano paghe orarie quasi dimezzate. Questo spiega fenomeni di ri-localizzazione che hanno riportato sul territorio Usa pezzi di manifatturiero che erano finiti in Canada o in Messico. Qualche merito va anche a Obama e alla sua tanto deprecata spesa pubblica: con una spesa statale salita al 25% del Pil (rispetto al 20% in media negli ultimi 30 anni), questo presidente ha usato in pieno la ricetta keynesiana per sostenere la domanda, che dimostrò la sua efficacia contro la Grande Depressione. Il cruccio, per la Casa Bianca, è che questa lezione sembra dimenticata dai governi europei.


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